Lo si accosta per consuetudine a Persio,
nonostante il divario cronologico che li separa.
I
motivi di questo canonico accostamento sono i seguenti:
-
entrambi manifestano l'intenzione programmatica di ricollegarsi alla
tradizione della satira latina di Lucilio (più che di Orazio);
-
entrambi rivestono il ruolo del poeta censore del vizio e dei costumi
ed utilizzano le forme ed i toni dell'invettiva: la satira
non è
più il sorriso condiviso tra poeta e lettore sulle comuni miserie
dell'umanità, ma il grido di sdegno del maestro di morale che addita ex
cathedra i comportamenti negativi; essi dunque recuperano il rigorismo
cinico-stoico, un atteggiamento etico profondamente inviso ad Orazio;
-
dal punto di vista dello stile, condividono entrambi il manierismo
anticlassico che emerge come reazione al classicismo di regime,
rispettivamente augusteo (Persio) e flaviano (Giovenale). La destinazione
dei loro scritti è ormai esclusivamente la recitatio, e gli
espedienti retorici utilizzati sono studiati e diretti a questo fine;
-
sono inoltre sorprendentemente accomunati dalla cronologia relativa
alla tematica che trattano: Giovenale scrive dell'età di Persio (quella
giulio-claudia), pur vivendo diversi decenni dopo: nella satira 1° afferma
infatti polemicamente che parlerà dei morti, non perché i vivi siano meno
corrotti, ma perché i defunti non sono in grado di vendicarsi.
E'
soprattutto quest'ultima coincidenza a dare l'impressione di una loro
contemporaneità.
Le
fonti: cenni autobiografici, epigrammi di Marziale, biografie di
età tarda (poco attendibili).
La
vita: Decimo Giunio Giovenale nasce ad Aquino
nel decennio 50-60 d.C. da una famiglia benestante. Riceve una buona
educazione retorica e rivela ben presto scarso interesse per la filosofia.
In seguito esercita (forse) l'avvocatura, ma con poco successo. Dopo la
morte di Domiziano (96 d.C.) si dà all'attività poetica, vivendo da cliens
come il suo amico Marziale. Muore dopo il 127 (termine post quem ricavabile
dal riferimento ad un fatto accaduto sotto il consolato di Iunco del 127),
ma non conosciamo la data precisa. Probabilmente falsa è la notizia di un
suo trasferimento in Egitto all'età di 80 anni: l'imperatore
Adriano lo avrebbe così allontanato da Roma, con il pretesto di un incarico
militare, per punirlo di alcuni versi offensivi nei confronti di un suo
protetto (forse il bellissimo
Antìnoo,
amante dell'imperatore). Emerge tuttavia dalla satira XV vv. 43-45 una
conoscenza diretta dell’Egitto: "… per la corruzione dei costumi, come
io stesso ho constatato, quel popolo barbaro non è inferiore alla
famigerata Canopo".
L'opera:
comprende 16 satire in esametri, suddivise in 5 libri
(probabilmente da Giovenale stesso), databili fra il 100 ed il 127 d.C.
Libro
1°:
Satira
1°: espone il "programma" di Giovenale: la sua
satira
si
oppone alle vacue declamationes alla moda e la sua Musa ispiratrice
è la dilagante corruzione morale: di fronte allo spettacolo del vizio
assunto a sistema di vita, infatti, "difficile est saturam non scribere";
se anche la natura si oppone, i versi li fa l’indignazione: si natura
negat, facit indignatio versum.
Satira
2°: contro l'ipocrisia dei perbenisti e l'omosessualità dilagante.
Satira
3°: l'amico Umbricio abbandona Roma, resa invivibile dal caos e dalla
mancanza di ordine pubblico. Viene fornita l’immagine di una città i cui
quartieri poveri sono pericolosi e malsani, a differenza delle fastose
dimore dei ricchi; beati i tempi che, sotto re e tribuni, videro Roma
contenta di una sola prigione.
Satira
4°: è la celebre satira che vede l'imperatore Domiziano riunire il
consiglio per decidere come cucinare un enorme pesce (un rombo) che gli è
stato regalato.
Satira
5°: descrive il disagio dei clientes umiliati alla cena del
ricco Virrone.
Libro
2°:
Satira
6°: è la più lunga (occupa da sola un intero libro); Giovenale vi dà
un celeberrimo saggio di misoginia, mettendo al bando l'immoralità e i vizi
delle donne; notevole in particolare la descrizione dell'insaziabile
lussuria di Messalina, prima moglie dell’imperatore Claudio.
Libro
3°:
Satira
7°: illustra la triste situazione della decadenza degli studi e
rimpiange il mecenatismo dell’epoca augustea.
Satira
8°: l'argomento della satira è la vera nobiltà: nascere titolati non
significa essere nobili; quella che conta è la nobiltà dei sentimenti.
Satira
9°: Nèvolo, omosessuale, si lagna in un lungo monologo di essere poco
pagato in rapporto alle sue prestazioni.
Libro
4°:
Satira
10°: sulla insensatezza dei desideri umani.
Satira
11°: è il confronto fra la povera cena offertagli generosamente da un
amico e il lusso inutile ostentato dai ricchi.
Satira
12°: contro i cacciatori di eredità.
Libro
5°:
Satira
13°: contro gli imbroglioni.
Satira
14°: sull'educazione dei figli: Giovenale esalta l’educazione che un
tempo i genitori impartivano ai propri figli, fondata sull’onestà e sulla
parsimonia. Nell’epoca contemporanea invece contano solo i soldi:
"nessuno ti chiede donde venga il denaro, purché tu ne abbia".
Satira
15°: racconta un episodio di cannibalismo, ambientato in Egitto.
Proprio questa satira potrebbe avere originato la notizia del viaggio in
Egitto dell'autore ormai ottuagenario.
Satira
16°: Giovenale descrive i privilegi della vita militare. E' incompleta.
Anche questa satira è alla base delle dicerie circa il presunto incarico
militare in Egitto di Giovenale.
Le
tematiche: quella di Giovenale è
una poetica dell'indignatio: la
satira
è la sola forma letteraria adatta
ad esprimere lo sdegno dell’autore, che vede lo sfacelo morale dei suoi
tempi laddove i suoi coetanei vedono l'approssimarsi di una nuova "età
dell'oro" dopo la fosca stagione domizianea.
E'
evidente che egli non crede alla possibilità di un riscatto da
quella situazione, che si limita a denunciare senza neppure tentare di
proporre correttivi; in questo si differenzia da Persio e addirittura si
contrappone ad Orazio: rinnega cioè il pensiero moralistico romano
tradizionale che propone, di fronte alla corruzione e al vizio, risposte di
carattere filosofico (la posizione del saggio
stoico), di morale sociale. Giovenale non solo rifiuta, ma anzi demistifica
questa morale consolatoria, che in ultima analisi lascia tutti i
vantaggi pratici ai corrotti, riservando alle persone oneste solo il
conforto della propria integrità morale: ben magra consolazione, di fronte
al piatto vuoto!
L'astio
sociale di Giovenale, che gli deriva dalla sua condizione di cliens,
sfocia nell'invettiva dell'emarginato: estraneo al panorama sociale e
politico, egli osserva la società romana alla luce degli ideali nazionali e
repubblicani (nostalgia per il mos maiorum, per le caste matrone e
per i contadini frugali); ne esce un quadro di grande corruzione e
confusione sociale, in cui la nobiltà non è più garante e promotrice di
cultura, ma lussuriosa e corrotta, inquinata da liberti volgari e
arricchiti che detengono un grande potere, orgogliosa delle sue
squallide donne "emancipate".
È
facile leggere in chiave di democratismo le istanze sociali di
Giovenale, ma si tratta di un errore di prospettiva: egli infatti si oppone,
sì, alle ingiustizie sociali, ma non è certo dalla parte del volgo becero
ed accattone, che chiede solo panem et circenses e pullula di
orientali astuti e trafficoni.
Il
risultato di queste riflessioni è la satira "contro tutti",
in cui si coniugano orgoglio intellettuale e astio nazionalistico,
nell'ottica della idealizzazione nostalgica del passato. Ma in realtà
l'utopia arcaizzante (destinata a diventare topica del moralismo romano) in
cui sfocia la sua indignatio, altro non è che sintomo di biliosa impotenza.
Negli
ultimi 2 libri di satire, tuttavia, Giovenale assume un atteggiamento
più distaccato e i suoi obiettivi sembrano farsi più generici e sfocati:
egli, pur non rinunciando del tutto alla violenta indignatio,
recupera più da vicino la tradizione della diàtriba (gli unici veri beni
sono quelli interiori, quali la virtù, mentre quelli esteriori non sono che
apparenza e non portano alla felicità) e sembra avviarsi verso l'apàtheia
stoica.
Lo
stile: Giovenale non utilizza più il sermo cotidianus proprio
della
satira
luciliana ed oraziana (quanto a Persio, è un caso a sé e
stilisticamente non ha paralleli), ma un tono altisonante e magniloquente;
si perde il gusto del ridiculum in favore del sublime, con un
intenzionale riferimento alla tragedia (si parla infatti per
Giovenale di "stile satirico sublime"): un esempio in
questo senso è costituito dall'utilizzo di tòpoi epico-tragici in
contesti volgari, con un voluto sfasamento di registro rispetto alla materia
trattata, oppure dall'accostamento apparentemente gratuito di toni aulici e
plebei, di termini altisonanti ed osceni.
Il
presunto e tanto decantato "realismo" giovenaliano è in
realtà uno specchio deformante della realtà: tutto in lui è esasperato,
iperbolico, grottesco, sinistro, tutt'altro che realistico: semmai surreale.
Tutto
questo va a connotare non più una realtà umana di cui sorridere, quanto
piuttosto un mondo popolato di mostri, in cui l'autore non trova
proprio nulla di comico.
L'intento
della satira di Giovenale è dunque ben diverso da quello della satira di Persio: quest'ultimo, infatti, intende detrahere pellem, strappare la
maschera di perbenismo che cela il vero volto della società, il che implica
l'esistenza della nozione del vizio nella gente comune: infatti non si
nasconde se non quello che si sa essere male.
Lo
scopo della satira tragica di Giovenale è invece quello, ben più arduo, di
tentare di restituire il senso del male ad una società che ne ha
perso la cognizione ed esibisce il vizio come una moda.
Infine
non bisogna dimenticare un altro tratto caratteristico dello stile
giovenaliano: la tendenza alla sententia lapidaria ed
icastica, che condensa una situazione in un flash di straordinaria
efficacia. Gran parte dei "modi di dire" latini di uso comune in
italiano proviene da Giovenale ("panem et circenses",
"quis custodiet custodes?", "mens sana in corpore
sano", etc.).
La
fortuna: pressoché ignorato nel II e III sec., incontrerà il
favore del pubblico nel IV. Ben noto a Dante, a Petrarca, agli umanisti, poi
ad Ariosto, Parini, Alfieri, Hugo e Carducci.
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