Virtù e piacere non possono coesistere - Seneca |
"E tuttavia, che cosa impedisce che la virtù e il piacere si fondano insieme e così si ottenga che il sommo bene sia nello stesso tempo onesto e piacevole?"1 Il fatto che una parte dell'onesto non può essere che onesta, e il sommo bene non conserverà la sua integrità, se vedrà in sé qualcosa di diverso da (ciò che è) meglio. Anche2 la gioia che nasce dalla virtù, per quanto sia un bene, non è tuttavia parte del bene assoluto, non più della letizia e della serenità, benché nascano da bellissime cause; questi infatti sono dei beni, che però conseguono al sommo bene, non (lo) riassumono (in sé). Chi invece associa virtù e piacere, e neppure alla pari, indebolisce con la fragilità di uno dei due beni tutto il vigore che c’è nell'altro, e mette sotto il giogo quella libertà (che è) invitta solo se non conosce nulla di più prezioso di sé3. Infatti - e questa è la peggior schiavitù – (costui) comincia ad aver bisogno della Fortuna; (ne) consegue una vita ansiosa, sospettosa, trepidante, timorosa degli eventi, dipendente dalle (diverse) circostanze di tempo. (In questo modo) non dài alla virtù una base solida, immobile, ma la costringi a poggiare su un terreno instabile; e che cosa c'è di così instabile come l'attesa di eventi accidentali e la varietà delle condizioni fisiche4 e dei fattori che influiscono sul corpo?
|
Soluzione dell'esercizio: le concessive sono: quamvis bonum sit e quamvis ex pulcherrimis causis nascantur; la relativa appositiva è: quae maxima servitus est.
Nota
3
|