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Apokolokyntosis sive Ludus de morte Claudii
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I
fatti che si svolsero nei cieli il tredici ottobre dell'anno di grazia1,
primo di un'era di beatitudine, ecco quanto voglio tramandare alla storia. Qui
non si farà posto né ai risentimenti né alle simpatie. Se per caso qualcuno
domanderà come faccio a sapere le cose così precise, prima di tutto, se non mi
garba, non risponderò: e chi mi può obbligare? So pure di essere diventato un
uomo libero sin da quando finì i suoi giorni colui che aveva confermato la
verità del proverbio: "o si nasce re o si nasce cretino". Se mi
piacerà di rispondere, dirò quello che mi viene alla bocca. Gli storici? Chi
ha mai preteso da loro dei testimoni giurati? E poi, se proprio bisognerà
mettere avanti la fonte, domandatelo a quello che vide Drusilla salire al cielo2:
lui vi dirà magari anche di aver visto fare a Claudio "trimpellando coi
suoi passetti" quello stesso viaggio. Volere o no, gli tocca pure di vedere
tutto quello che succede in cielo; soprintende alla via Appia, che presero, lo
sai, anche Augusto e Tiberio Cesare, per andare fra gli dèi. Se lo domandi a
lui, a quattr'occhi, te lo dirà: davanti a più persone non si lascerà cavare
una parola: perché dal giorno che in senato giurò di avere visto Drusilla
salire in cielo, e, per ringraziamento di una notizia così bella, nessuno volle
credere quello che egli aveva pur visto, proclamò solennemente che non avrebbe
fatto più rivelazioni neanche se avesse visto ammazzare un uomo nel mezzo del
foro. Quanto seppi da lui allora, io ve lo riporto pari pari, per quanto mi è
caro saperlo contento e in buona salute. Febo
avea già con più breve cammino affrettato il suo corso E
delle tenebre le ore allungavano il sonno e il riposo, E
già Cinzia vedea vittoriosa più vasto il suo regno; Squallido
l'inverno strappava i doni giocondi Dell'autunno
ferace, e da Bacco, omai declinante, Attardandosi,
rari cogliea frutti il vendemmiatore. Forse
si intenderà meglio se dirò: era ottobre, il tredici del mese. L'ora non te la
so dire precisa: è più facile si trovino d'accordo due filosofi che due
orologi; a ogni modo si era fra l'ora sesta e la settima. "Tu fai le cose
troppo alla buona per fermarti costì: tutti i poeti non si contentano di
descrivere la levata e il tramonto, e magari scomodano anche il mezzogiorno; tu
passi così alla leggera su un'ora tanto fortunata?" Ecco
già Febo col carro a metà avea diviso il suo corso E
più verso la notte agitava ormai stanco le briglie, Per
l'obliquo sentiero traendo al declino la luce. Claudio
dispose la sua anima alla partenza, ma non trovava l'uscita. Allora Mercurio,
che si era sempre compiaciuto del sottile ingegno di lui, chiama in disparte una
delle Parche e le dice: "Donna spietata, perché lasci nelle pene dell'agonia
quel disgraziato? Ma non avrà mai riposo da questi lunghi tormenti? Sono
sessantaquattro anni che è alle prese con la sua anima: perché non vuoi far
piacere a lui e al suo popolo? Lascia che abbiano ragione per una volta gli
astrologi, che, da quando è diventato imperatore, non passa anno, non passa
mese, che non lo spediscano all’altro mondo. Però nulla di strano se non si
raccapezzano e se nessuno sa quando suona la sua ora: nessuno credeva che egli
fosse mai di questo mondo. Fa’ il tuo ufficio: "Muoia,
e tu lascia che un altro al suo posto governi più degno". Ma
Cloto: "E dire che proprio io, per Ercole, esclamò, gli volevo aggiungere
qualche poco di giorni, tanto perché desse la cittadinanza a quei tre o quattro
che rimangono ancora: s'era proposto di vedere tutti in toga: Greci, Galli,
Ispani, Britanni. Ma, se è decretato che rimanga qualche straniero, perché non
se ne perda il seme, e tu vuoi così, sia pure". Allora apre una cassettina
e mette fuori tre fusi: uno era di Augurino, uno di Baba3,
il terzo di Claudio. "Questi tre, disse, li farò morire nello spazio di un
anno, a poca distanza di tempo, e così non lo lascerò partire senza compagnia.
Non è bello che uno, che finora vedeva tante migliaia di persone al suo
seguito, e tante per staffetta, e tante ai lati, si trovi a un tratto
abbandonato da tutti. Si contenterà per ora di questi tre camerati". Disse,
e sul fuso funesto i suoi stami avvolgendo, Della
stolida vita di un principe il corso troncava. Ma
Lachesi redimita le chiome, adorna i capelli, Pierio
lauro cingendo attorno alla fronte ed al crine, Candidi
fili da fiocchi simili a neve deduce Con
sicura mano volgendoli: e, mentre li trae, Prendono
nuovo colore: miran le sorelle il lavoro, Mentre
la rozza lana si muta in prezioso metallo, Sì
che secoli d'oro discendono in fulgido stame. Elle
non trovan riposo: il ricco filano vello Liete
mirandone piene le mani; sì è dolce il lavoro. L'opera
volge alacre da sé; senza alcuna fatica Morbidi
stami si allungano giù dal fuso che gira: Vincono
di Titòno l’età, di Nèstore gli anni Febo
vicino seconda col canto e gioisce ai presagi, E
sereno ora muove il suo plettro, ora porge la lana: Col
canto le avvince, dimentiche della fatica: Mentre
alla cetra e al canto fraterno indugian le lodi, Più
del solito filan le mani, ed i fati mortali L'opra
ammirata trascende. "Parche, non recidete" Febo
ammonisce: "di ogni mortal vita superi il corso Quei
che a me simile è nel sembiante4, e
pari di grazia, E
nella cetra e nel canto non cede. Beati ai mortali Ridarà
gli anni, romperà delle leggi il silenzio. Quale
Lucifero sperde la luce degli astri cadenti, quale
Espero sorge annunciando il ritorno degli astri, Quale,
al primo svanir delle tenebre, Aurora la luce Rosseggiando
diffonde, e il sole saluta la terra Fulgido,
e in corsa il suo cocchio avventa fuor dalle sbarre, Tale
Cesare appare, tale fra poco Nerone Roma
saluterà. Mite raggia chiarore di luce Dal
volto, dal collo cui adornan le chiome fluendo". Così
Apollo; e Lachesi già propizia verso l'uomo sì bello lo accontentò largamente
donando a Nerone ancora molti anni per suo conto. A Claudio tutti gridano, "Con
lieti evviva, che da casa il seguano." Ed
egli intanto esalò il fiato come da una bolla, e da allora finì di parer vivo.
Spirò mentre assisteva a una commedia: tanto perché tu sappia che ho le mie
ragioni di guardarmi dagli attori. L'ultima frase che di lui si udì nel mondo,
dopo che ebbe lasciato partire un suono più forte del solito da quella parte
con la quale si esprimeva con maggior facilità, fu questa:"Povero me,
forse me la son fatta addosso". Se l'avesse fatta, non lo so; certo è che
egli ha sempre scacazzato dappertutto. Quel
che successe poi sulla terra è superfluo riferirlo. Lo sapete benissimo, e non
c'è pericolo che esca di mente quello che la gioia popolare ha segnato bene
nella memoria: nessuno si dimentica della propria felicità. Sentite piuttosto
quello che accadde in cielo: la conferma la troverete nella mia fonte. Annunciano
a Giove l'arrivo di un personaggio di statura discreta, e discretamente
imbiancato: doveva avere chi sa che brutte intenzioni, perché tentennava
continuamente la testa; strascicava il piede destro. Gli avevano domandato di
che paese fosse, e lui aveva borbottato qualcosa con suoni inarticolati e
indistinti; ma la sua lingua non la capivano: non era né greco né romano, né
di altro paese conosciuto5. Allora
Giove chiama Ercole, che aveva girato il mondo in lungo e in largo e doveva
conoscere tutti i popoli, e gli dice di andar lui e veder di scoprire di che
razza fosse. Ercole, al primo vederlo, ne ebbe sgomento, accorgendosi che ancora
non aveva finito di avere a che fare coi mostri. Appena si trovò davanti quel
ceffo di nuovo stampo, quel modo di camminare strano, quella voce che non era di
animale terrestre, ma come quella dei mostri marini, cavernosa e cincischiata,
ebbe paura che fosse venuta la sua tredicesima fatica. Guardandolo poi più
attentamente, ci trovò una parvenza di uomo. Allora gli si avvicinò e, cosa
molto facile per un greculo, lo apostrofò in greco: "Chi,
d'onde sei? dove mai a te sono patria e famiglia?"6 Claudio
si sente allargare il cuore, che ci siano là dei classicisti, e spera di trovare
accoglienza per le sue storie7.
Allora, volendo indicare, con un verso omerico anche lui, di essere Cesare,
rispose: "L'aure
da Troia ai Cìconi trasportando m'han spinto". Più
vero sarebbe stato il verso seguente, non meno omerico: "Là
per me la città fu distrutta, e perduta coi suoi". E
l'aveva data a bere a Ercole, che non è punto malizioso, se là non ci fosse
stata la Febbre, che sola era venuta con lui, lasciando il proprio tempio: tutti
gli altri dèi erano rimasti a Roma. "Costui, disse, ti racconta frottole
belle e buone. Te lo dico io, che son vissuta tanti anni con lui: è nato a
Lione: ti presento un concittadino di Planco8.
Ti ripeto, è nato a sedici miglia da Vienna, è un Gallo di razza. E così, da
buon Gallo, si impadronì di Roma. Costui ti garantisco che è nato a Lione,
proprio dove regnò tanti anni Licino. Tu che hai battuto più contrade d’un
mulattiere di professione, devi conoscere quelli di Lione e sapere che dallo
Xanto al Rodano ci corrono molte miglia". A questo punto Claudio piglia
fuoco e si sfoga facendo più chiasso che può. Che cosa dicesse, non lo capiva
nessuno; ma intanto lui voleva che mettessero a morte la Febbre, con quel suo
gesto della mano tremolante, abbastanza ferma soltanto per il cenno con cui
mandava la gente al taglio della testa. L'ordine di mozzarle il collo lo aveva
dato; ma si sarebbe detto che lì fossero tutti liberti suoi, tanto nessuno gli
dava retta9. "Ascoltami,
tu, disse allora Ercole, e smettila di dare in ismanie. Tu sei in un paese dove
i topi rodono il ferro. Presto, qua la verità, se non vuoi che ti faccia
passare io codeste frenesie". E, per fargli più paura, prende una posa da
attore tragico e declama: "Di'
fuori, presto, da qual terra hai origine, Che
questa clava non ti stenda esanime: Già
molti re più volte uccisi barbari, Che
cosa dunque ciangottando brontoli? Fra
quali genti crebbe il capo tremulo? Racconta.
I regni io già del re trigemino Lontano
visitando, dall'Esperia Per
trarre il gregge nobile ad Inachia, Sovra
due fiumi vidi costa pendere Che
il raggio mattutin di Febo visita. Veloce
la lambisce il grande Rodano, E
l'Arar, con il corso suo volubile, Le
rive bagna ristagnando tacito. È
quella terra di tua vita pascolo?" Queste
parole le pronunciò abbastanza deciso e ardito; eppure non era proprio sicuro
di sé, e si aspettava sempre i "fulmini dell'indemoniato". Claudio,
vedendosi davanti quella figura massiccia, lascia da parte le ciancie e capisce
che, se a Roma nessuno ce la poteva con lui, lì era altro affare, e non ci
aveva lo stesso potere. Un gallo è padrone solo nel suo letamaio. Allora, per
quanto si poté capire, parve dicesse così: "Io speravo in te, fortissimo
Ercole, che saresti stato dalla mia parte al cospetto degli altri, e, se mi
avessero chiesto chi mi presentasse, avrei fatto il nome tuo, che mi conosci
meglio degli altri. Perché, se vedi di ricordare, ero io quello che a Tivoli
davanti al tuo tempio rendeva giustizia per giornate intere nei mesi di luglio e
di agosto. Lo sai tu se ho raccattato poche meschinità a sentire quei causidici
giorno e notte: se ci fossi capitato tu, crediti bravo quanto vuoi, ma avresti
preferito ripulire le stalle di Augia: ché ho spazzato più letame io di te. Ma
poiché voglio... [lacuna nel testo] ..."Nulla
di strano se ti sei intruso nella curia: per te non c'è sbarramento che tenga10.
Dicci almeno quale dio vuoi che facciamo di costui. Un "dio epicureo"
non è possibile: quello "non si prende cura di nulla, e non dà brighe
agli altri"11. Stoico? E come
potrebbe essere "rotondo", come dice Varrone, "senza capo né
prepuzio?" Anzi, ora che ci penso, qualcosa ce l'ha del dio stoico: non ha
né capo né cervello. Per Ercole, se anche avesse chiesto a Saturno questo
favore, lui che festeggiava il suo mese tutto l'anno, vero principe di tutte le
feste, non l'avrebbe ottenuto; figuratevi poi da Giove che, per quanto dipese da
lui, dichiarò reo di incesto. Non mise a morte infatti Silano, suo genero, ...[lacuna
nel testo] di grazia, perché? Perché a sua sorella, la più carina delle
ragazze, che chiamavano Venere, preferì dare il titolo di Giunone. Perché,
dice, vorrei saperlo, perché proprio la sorella? Ignorante, va' a imparare: a
Atene è lecito per la metà, a Alessandria tutto. Siccome a Roma, racconta lui,
i topi si contentano di leccare le macine, costui pretende di venir qui a farci
da maestro. Non sa quel che accade nel suo talamo, e ancora "ficca gli
occhi negli spazi celesti?". Vuol diventare un dio; non gli basta di avere
un tempio in Britannia, né che ora i barbari lo venerino e gli levino preghiere
come a un Dio, 'per propiziarsi lo stolto'." Alla
fine Giove si sovvenne che neppure per gli dèi è regola fare proposte finché
persone estranee sono presenti dentro la Curia: "Io, disse, padri
coscritti, vi avevo dato di facoltà di interloquire, ma voi mi avete fatto
addirittura una fiera. Voglio che osserviate le regole della Curia. Costui,
chiunque sarà, che concetto può farsi di noi?". Allora lo congedano, e per
primo ha la parola Giano padre. Egli era stato designato per le calende di
luglio console del pomeriggio, uno che sempre guarda 'a un tempo dinanzi e
dietro a sé'... dove gli arriva la vista. Parlò a lungo e con foga da persona
che vive nel Foro, e lo stenografo non riuscì a tenergli dietro; perciò non
riporto le sue parole, per non doverle parafrasare. Parlò a lungo della maestà
degli dèi; non era un onore da concedersi a tutti. "Una volta, concluse,
non era cosa da ridere diventare un dio; ma ora ne avete fatto il mimo della
Fava. E allora, per non aver l'aria di parlare più per una questione di persona
che di principio, propongo: da oggi in poi nessuno sarà divinizzato di coloro
che 'mangiano i frutti della terra' o di coloro che 'nutre la terra prodiga di
messi'. Chiunque, violando questo senatoconsulto, sarà divinizzato e dipinto o
scolpito in effigie divina, si decide che sarà consegnato agli spiriti, e nel
prossimo spettacolo di gladiatori sarà frustato a dovere insieme coi nuovi
arruolati". Subito dopo si dà la parola a Dièspiter, figlio di Vica Pota,
console designato anche lui. Era un piccolo cambiavalute; ma campava la vita con
un altro mestiere: vendeva cittadinanze da poco prezzo. Gli si accostò con bel
garbo Ercole, e gli toccò l'orecchio. Quello allora avanzò la sua proposta in
questi termini: "Considerato che il divo Claudio ha legami di sangue anche
col divo Augusto, nonché con la diva Augusta sua ava, che egli stesso volle
divinizzata; che egli supera di gran lunga per saggezza tutti i mortali; che
infine è nel pubblico interesse vi sia qualcuno in grado di 'mangiar le rape
bollite' con Romolo, propongo che il divo Claudio, a partire da oggi, sia una
divinità, con le clausole di chi prima di lui lo è stato di pieno diritto, e
che questa decisione sia inserita nelle Metamorfosi
di Ovidio". I pareri
erano discordi; ma sembrava che Claudio riportasse più voti: perché Ercole,
vedendo in giuoco gli affari suoi, si affannava a correre di qua e di là e
diceva a tutti: "Non negarmi un favore; è per me una questione personale;
un'altra volta, se tu avrai bisogno di qualcosa, ti ricambierò: si sa, una mano
lava l'altra". Quindi si levò a parlare, secondo il turno, il divo Augusto; e svolse la sua tesi con impareggiabile eloquenza. "Padri coscritti, disse, voi mi siete testimoni, che, da quando fui divinizzato, non ho mai aperto bocca: sempre bado ai fatti miei. Ma ora non posso più seguitare a far conto di niente, e frenare il cruccio, che il mio ritegno renderebbe più acuto che mai. Per questo assicurai la pace sulla terra e sui mari? Per questo soffocai le guerre civili? Per questo consolidai Roma con i miei ordinamenti, la abbellii di opere pubbliche, perché poi... Padri coscritti, non so neppure io che cosa dire: qualunque parola è poco per il mio sdegno: non mi resta che ricorrere al celebre detto di Messala Corvino, uomo di alta eloquenza: 'ho vergogna del potere'. Costui, padri coscritti, che a voi sembra incapace di dar noia a una mosca, ammazzava la gente con la stessa disinvoltura con cui un cane si divorerebbe una trippa. Ma a che pro ricordare tante e così illustri vittime? Non ha tempo per piangere le sventure della patria chi guarda ai lutti domestici. Perciò lascerò da parte le une, e parlerò di questi altri; perché, anche se mia sorella non sa il greco, io lo so: il ginocchio è più vicino del polpaccio12 . Costui, eccolo là, dopo essersi riparato per tanti anni all’ombra del mio nome, mi ha ricompensato facendo morire due Gulie mie pronipoti, una di spada l'altra di fame, e poi un pronipote, L. Silano: e vedi tu, Giove, se era dalla parte del torto; per lo meno era dalla tua, a esser giusti. Dimmi, divo Claudio, perché ognuno di quelle o di quelli che tu hai messo a morte l'hai condannato prima di imbastire un processo, prima di sentirne le ragioni? Dove usa così? In cielo, no.
Hai qui il caso di Giove che regna da tanti secoli: solo a Vulcano ruppe una gamba quando "Préselo e giù per un piè lo sbalzò dalle soglie celesti". Si infuriò anche con la moglie, e la sollevò in aria: ma che forse li ammazzò? Tu invece Messalina l'hai uccisa; ed io ero il suo prozio come il tuo. 'Non ne seppi nulla' dici tu. Gli dèi ti mandino il malanno: peggio ancora se non lo sapevi, che d'averla ammazzata. Ebbe sempre di mira G. Cesare anche dopo morto. Quello aveva ucciso il suocero? E lui anche il genero. Gaio non volle che il figlio di Crasso fosse chiamato Magno? E lui gli rese il titolo, ma gli tolse la vita. ln una famiglia sola tolse di mezzo Crasso, Magno, Scribonia: tutta gente da conio, ma sempre nobili: Crasso poi, da quanto era stolto, avrebbe potuto anche governare. E di costui volete fare un dio? Guardate il suo fisico, se non è nato in odio agli dèi. Basta: dica tre parole tutte di fila, e mi lascio portar via come schiavo. Un dio come questo, chi gli presterà un culto, chi si affiderà a lui? Finché create di questi dèi, nessuno riconoscerà la divinità vostra. Concludo, padri coscritti: se ho tenuto in mezzo a voi una condotta onorata, se a nessuno ho mai dato responsi troppo rigorosi, allontanate da me quest'affronto. La mia proposta, secondo le ragioni addotte, è la seguente". E lesse da una tavoletta: "Considerato che il divo Claudio ha ucciso il suocero suo Appio Silano, i due generi Magno Pompeo e L. Silano, il suocero di sua figlia Crasso Frugi, uno che gli somigliava come si somigliano due goccie d'acqua, Scribonia suocera di sua figlia, sua moglie Messalina e tutti gli altri che non si possono contare, è mio avviso che si proceda contro di lui severamente, e non gli si dia facoltà di esser giudicato, e sia anzi tratto fuori al più presto, e esca dai cieli entro trenta giorni, dall'Olimpo entro tre giorni". Questa proposta fu approvata "per divisione". Senza indugio il Cillenio lo afferra per il collo fino a torcerglielo e lo trascina agli inferi. "Donde, dicono, non tornò nessuno."
Mentre scendono la via Sacra, Mercurio chiede che significasse quell'assembramento: che fosse il funerale di Claudio? Era il più splendido che mai si fosse visto, e poi curato con tutte le regole: si capiva bene che era il funerale di un dio. Tanta era la folla dei flautisti, dei corni, di ogni genere di strumenti, e tanto il frastuono, che persino Claudio lo poteva sentire. Tutti allegri, tutti in festa: il popolo romano andava avanti e indietro come chi è libero. Agatone e pochi cavalocchi piangevano, ma di cuore, si vedeva bene. I giureconsulti avanzavano dai loro rifugi, pallidi, rifiniti, reggendo l'anima coi denti: proprio gente che ricominciava allora a vivere! Uno di questi, vedendo gli azzeccagarbugli riuniti a conciliabolo piangere la loro sorte, s'accostò esclamando: "Ve lo dicevo io; non tutti i giorni è festa". Claudio, a vedere il suo funerale, capì di esser morto, perché un grande coro intonava solennemente un inno funebre in anapesti:
Claudio si compiaceva di quelle lodi tutte per lui, e voleva restare là a godersi ancora lo spettacolo. Il Taltibio degli dèi gli mette una mano addosso e lo trascina via a capo coperto, perché nessuno possa riconoscerlo, attraverso il Campo Marzio, e fra il Tevere e la via Coperta discende agli Inferi. Già lo aveva preceduto, per una scorciatoia, il liberto Narciso per far gli onori di casa al suo padrone: al suo arrivo gli si fa incontro tutto lindo, uscito com'era dal bagno, e esclamò: "Che vengono a fare gli dèi fra gli uomini?". "Fa' presto, lo interruppe Mercurio, e annuncia il nostro arrivo". In meno che non si dica Narciso prende la rincorsa. La strada è tutta in discesa, si va giù che è un piacere: tanto che, anche con la sua gotta, in un momento Claudio si trovò alla porta di Dite, dove se ne stava sdraiato Cerbero, o, come lo chiama Orazio, "la fiera dalle cento teste". Rimane un attimo sconcertato (lui aveva sempre avuto fra i suoi spassi un cagnolino bianco) appena si vede davanti quel cagnaccio nero e peloso (certo non ti piacerebbe che ti si parasse dinanzi al buio), e si dà a gridare a squarciagola: "Arriva Claudio!". Avanzano allora gli altri fra gli applausi: "Lo abbiamo ritrovato; facciamo festa". C'era.C. Silio, console designato, Giunco ex pretore, Sex. Traulo, M. Elvio, Trogo, Cotta, Vezio Valente, Fabio, tutti cavalieri romani che Narciso aveva mandato al supplizio. In mezzo a quella folla berciante c'era il pantomimo Mnestere, di cui Claudio, a titolo di distinzione, aveva fatto un trastullo di Messalina. In un momento si sparge la notizia della venuta di Claudio: primi di tutti arrivano di carriera i liberti Polibio, Mirone, Arpocrate, Anfeo, Feronatto, tutta gente che Claudio aveva mandato avanti per non trovarsi in nessun luogo senza i dovuti preparativi; poi i due prefetti Catonio e Rufrio Pollione, poi gli amici Saturnino, Pedone Pompeo, Lupo, Celere Asinio, uomini di rango consolare; in ultimo la figlia del fratello, la figlia della sorella, generi, suoceri, suocere, tutti gli stretti parenti insomma; e in fila serrata vanno incontro a Claudio. A vederli, questi esclama: "Tutti amici qui! Come ci siete venuti?". Allora Pedone Pompeo: "Che cosa dici, mostro crudele? In che modo? E ce lo domandi? Chi altri ci ha mandato che tu, l'assassino di tutti gli amici? Andiamo in giudizio: ti farò vedere io che tribunali son qui!".
Lo condusse così al tribunale di Eaco. Questi teneva appunto i processi secondo la legge Cornelia sull’omicidio. Gli chiede che inscriva a ruolo la causa contro Claudio e presenta il testo dell'accusa: "Trentacinque senatori uccisi, duecentoventuno cavalieri romani, e poi tutti gli altri 'quanti son grani di polvere e sabbia'." Claudio non trova un cane che lo difenda: finalmente si fa avanti P. Petronio, suo vecchio compare, uomo esperto nel linguaggio di Claudio, e chiede del tempo per preparare la difesa. Non gli è concesso. Sostiene l’accusa Pedone Pompeo, gridando e sbraitando; il difensore fa l'atto di voler rispondere. Ma Eaco, uomo giusto, glielo impedisce, e condanna il reo dopo aver sentito soltanto la parte avversaria, e dichiara: "Abbiasi pan per focaccia; e questa sia giusta sentenza". Si fece un gran silenzio. Tutti erano attoniti di meraviglia per la novità della procedura e osservavano che non si era mai seguito quel sistema. A Claudio, naturalmente, pareva piuttosto un'ingiustizia che una novità. Sul modo della pena si discusse a lungo, come la dovesse scontare. C'era chi diceva che ormai Sisifo già da troppo tempo faceva quella sua sfacchinata, o che Tantalo sarebbe morto di sete se non gli si dava un aiuto, o che prima o poi bisognava pur calzare la ruota al povero Issìone. Ma non si volle mettere a riposo nessuno di questi veterani, perché anche Claudio non dovesse illudersi di avere un giorno un simile trattamento. Fu deciso che bisognava trovare una pena nuova, ed escogitare per lui una fatica vana, e anche una speranza di qualcosa a lui caro senza toccare il punto di realizzarla. Allora Eaco lo condanna a giocare a dadi con un bussolotto sfondato. E subito eccolo a riacchiappare i suoi dadi, che tutte le volte gli sgusciavano senza che mai ne venisse a capo.
E quante volte gettarli dal bossolo tinnulo volle, L’un dado e l'altro gli sfuggìa; ché staccato era il fondo; E quando a gettar si arrischiava i suoi dadi raccolti, Ogni volta in atto di giocar rincorrendoli ancora, Sempre delusa ne andò la sua speme: di tra le dita Fuggono i dadi e gli scivolan via, traditori perenni: Similmente, quando è per toccare la vetta del monte, Dalla cervice di Sisifo rotola inutile soma. A un tratto sbucò fuori G. Cesare e si dette a reclamarlo per suo servo. Presenta testimoni, che lo avevano visto buscare da lui frustate e ceffoni. Viene aggiudicato a G. Cesare. Cesare ne fa dono a Eaco. Questi lo consegnò al suo liberto Menandro, perché fosse addetto alle istruttorie.
(Traduzione di Alessandro Ronconi).
Nota 1: si tratta del 54 d.C., data della morte di Claudio.
Nota 2: Livio Gèmino, curator della Via Appia, aveva assicurato (dietro lauto compenso) di aver visto salire al cielo Drusilla, sorella ed amante incestuosa di Caligola, da lui divinizzata dopo la morte.
Nota 3: di Augurino non si sa nulla; di Baba si sa soltanto (dall'epistolario senecano) che era praticamente un deficiente.
Nota 4: allusione alla bellezza fisica del giovane Nerone, che amava accentuare, anche nell'abbigliamento e nell'acconciatura, la sua rassomiglianza con Apollo. Da questi versi traspare chiaramente l'atteggiamento ottimistico e fiducioso che è proprio di tutti gli intellettuali e gli artisti durante i primi anni del regno di Nerone (il cosiddetto quinquennium felix, dal 54 al 59 d.C.).
Nota 5: in questo, come in numerosi altri passi dell'opera, Seneca allude alle varie magagne fisiche che affliggevano l'imperatore Claudio, il quale, contrariamente a quello che si pensava, era perfettamente sano di mente, ma probabilmente spastico. Per un interessantissimo documento in proposito (una lettera di Augusto alla moglie Livia, riportata da Svetonio), clicca qui.
Nota 6: citazione da Omero (Odissea 1. 170); ve ne sono numerose altre nell'opera.
Nota 7: al di là dell'ironia senecana, Claudio era un apprezzato storiografo, allievo di Tito Livio.
Nota 8: L. Munazio Planco, legato di Cesare, aveva fondato la colonia di Lione nel 43 a.C. Più sotto è ricordato Licino, un Gallo liberto di Cesare, procuratore della Gallia sotto Augusto.
Nota 9: la battuta allude al fatto che Claudio era completamente in balia dei liberti (oltre che delle donne); in particolare Narciso o Narcisso, ricordato poco oltre, era il vero deus ex machina della corte di Claudio.
Nota 10: la lacuna del testo ci impedisce di sapere con esattezza chi stia parlando e che cosa sia successo nel frattempo. Di sicuro ci troviamo nel senato degli dèi, parodia di quello romano, ed il parlante è un senatore avverso a Claudio, che si sta rivolgendo ad un sostenitore dell'imperatore. E' molto probabile che questo sostenitore sia Ercole, il quale, da quel sempliciotto che è (cfr. ad esempio gli Uccelli di Aristofane), si è evidentemente lasciato abbindolare dalle chiacchiere di Claudio. A lui fa riferimento il parlante quando dice "per te non c'è sbarramento che tenga", ricordando probabilmente l'episodio del rapimento di Cerbero da parte di Ercole.
Nota 11: citazione quasi letterale da Epicuro, che definisce le caratteristiche salienti della divinità epicurea; subito dopo si fa riferimento alla concezione stoica della divinità.
Nota 12: proverbio greco.
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