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Clicca sull'immagine per il testo integrale delle "Confessioni" di Sant'Agostino

 

Fra i più alti valori in cui credevano gli antichi greci e romani, padri della civiltà occidentale, c'era l'amicizia: un sentimento sul quale vale la pena di riflettere, perché in profondo contrasto con il materialismo del nostro stile di vita.

 

Secondo alcuni recenti studi sociologici, l'amicizia è un sentimento in estinzione in Occidente a partire dai tempi della Rivoluzione Francese (per tutta una serie di motivi che sarebbe complicato spiegare).

Da allora l'amicizia sembra essere stata sempre più confinata nel ghetto dell'adolescenza e della vecchiaia: due età fra loro lontane, ma accomunate dal desiderio di "fare gruppo" per vincere il senso di isolamento e di solitudine, di diversità e di emarginazione che spesso tormenta i giovani e gli anziani.

Si tratta però di un sentimento degradato, che nasce dal bisogno di far fronte ad una difficoltà comune; un senso tribale del "clan", più che un sentimento di amicizia vero e proprio.

Pare invece che l'amicizia tenda ad essere pressoché assente dal mondo degli adulti, sostituita da rapporti di convenienza e di interesse e dal rapporto di coppia, che si vuole totalmente coinvolgente, sensuale e passionale, tale da escludere tutto il resto del mondo, secondo una concezione dell'amore ancora romantica, decisamente egoistica e senz'altro controproducente sul piano dei rapporti sociali, perché genera isolamento e porta alla chiusura anziché all'apertura verso il mondo esterno.

Non era così nel mondo greco e latino, in cui l'amicizia era considerata il sentimento supremo proprio perché disinteressato ed altruistico, non inquinato dall'elemento sessuale né da passioni degradanti come la gelosia.

Epicuro, ad esempio, in implicita polemica con Platone (il solo filosofo antico che valuti positivamente l'eros), raccomanda di evitare i turbamenti dell'amore e di dedicarsi invece con gioia all'amicizia, seppure attribuisca a questo sentimento un'origine utilitaristica che urta la sensibilità di altri pensatori, primi fra tutti gli stoici.

Illuminanti in tal senso sono le parole di Seneca, che, a proposito dell'inutilità dell'amicizia, dice:

"Mi chiedi: 'Per quale scopo ti fai un amico?' Per avere uno per cui poter morire, per avere uno da seguire in esilio, alla cui morte io possa oppormi con tutte le mie forze" (Lettere a Lucilio 9. 8-11).

All'amicizia è dedicata un'intera opera di Cicerone, il Laelius de amicitia, e l'opinione di Cicerone stesso su questo sentimento è chiaramente espressa da queste parole: "A mio parere, coloro che eliminano dalla vita l’amicizia, eliminano il sole dal mondo" (clicca qui per il brano completo).

Né era nettamente definito il confine tra l'amicizia e l'amore: un confine che in effetti, a ben guardare, sul piano dei sentimenti è molto difficile da individuare; forse la migliore definizione in questo senso è ancora quella di Seneca, che nella stessa lettera afferma: "l'amore è un'amicizia impazzita".

Spesso capita di leggere negli autori antichi, a proposito dell'amicizia, affermazioni che generano in noi turbamento, perché suonano alle nostre orecchie come appassionate frasi d'amore; e se il caso di Catullo è noto a tutti e viene spesso superficialmente liquidato come "patologico", meno noti, ma non meno significativi, sono altri casi di autori "al di sopra di ogni sospetto", come Marc'Aurelio e Sant'Agostino

Leggi ad esempio queste parole di Sant'Agostino a proposito della morte del suo più caro amico:

"Io sentivo che la mia e la sua erano un'anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore - io non volevo vivere a metà"

Non sono forse bellissime parole d'amore?

Fra le poche opere contemporanee che intendano l'amicizia nel senso in cui la concepivano gli antichi, la più significativa è forse lo splendido romanzo breve "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman, che ti suggeriamo di leggere.

Ora però ti proponiamo un passo di Sant'Agostino tratto dalle Confessioni (4. 4.7-7.12), in cui l'autore rievoca con grande sincerità e toccante umanità il mistero di un'amicizia adolescenziale nata dagli interessi comuni e dalla comune adesione ad un ideale: quello dell'eresia manichea. Un'amicizia tradottasi in una dipendenza reciproca a detta dell'autore stesso eccessiva, che poteva cessare solo con la morte di uno dei due. 

E così fu infatti: Agostino, a distanza di molti anni, avverte ancora tutto lo strazio di quella separazione, che considera come un imperscrutabile segno della volontà di Dio, un dolorosissimo mezzo di salvezza, il solo che potesse evitare ai due amici di smarrirsi in un abisso di traviamento reciproco.

 

(4. 4.7-7.12)

In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare nella mia città natale, m'ero fatto un amico che gli studi comuni mi rendevano particolarmente caro, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da bambini eravamo cresciuti insieme, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo sempre giocato. Ma così amici come allora non eravamo stati mai - un'amicizia, certo, che non era ancora quella vera, perché vera è solo quella che tu stringi fra persone unite a te dall'amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo, che ci è stato dato. Eppure era così dolce, come fusa nel fuoco di studi tanto simili. Perché io lo avevo perfino distolto dalla vera fede, che professava da ragazzo benché senza profonda convinzione, per introdurlo a quelle favole ossessive e nefaste che facevano piangere mia madre1. Ormai la mente di quella persona andava errando con me, e non poteva stare senza lui, il mio cuore. E all'improvviso tu c'eri alle spalle e la fuga era vana, Dio delle vendette e insieme fonte di accorate tenerezze, che ci converti a te per vie mirabili: e l'hai spazzato via da questa vita quando durava solo da un anno la nostra amicizia, dolce per me più di ogni altra dolce cosa di quegli anni.

Chi può contare da solo tutte le tue grazie che in sé solo ha provato? Dio mio, cosa facesti allora? Come è insondabile l'abisso dei tuoi giudizi! Bruciava di febbre, e restò a lungo incosciente in un sudore d'agonia: siccome non c'era più speranza lo si fece battezzare in stato di incoscienza. Io non me ne curai, nella presunzione che la sua anima avrebbe ritenuto quello che aveva appreso da me, piuttosto che un'operazione fatta sul suo corpo privo di sensi. Ma le cose stavano in tutt'altro modo. Infatti si riprese e sembrò fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli - e fu molto presto, appena anche lui fu in grado di farlo, perché non mi allontanavo da lui, eravamo troppo legati - tentai, come se anche lui ne avesse voglia quanto me, di farlo ridere di quel battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto privo di sensi e di coscienza. Ma lui aveva già saputo di averlo ricevuto. E trasalendo inorridito come di fronte a un nemico, con una improvvisa libertà di giudizio in lui insospettabile mi avvertì che, se volevo rimanergli amico, dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Da parte mia rimasi stupefatto e sconvolto, e trattenni per allora tutti i miei impulsi, per dargli il tempo di guarire e riacquistare le forze, e poi trattarlo come avessi voluto. Ma fu strappato alla mia demenza, per conservarsi in te a mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è nuovamente assalito dalla febbre, e muore.

La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m'era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi "eccolo, viene", come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest'anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: "Spera in Dio" lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell'anima.

E ora, Signore, tutto questo è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Posso sapere da te che sei la verità perché il pianto sia dolce a chi è infelice, posso accostare alla tua bocca l'orecchio del cuore, perché tu me lo dica? O forse tu, per quanto onnipresente, hai respinto lontano la nostra tristezza, e te ne resti in te stesso mentre noi rotoliamo di prova in prova? E tuttavia se non potessimo piangere alle tue orecchie, non resterebbe nulla della nostra speranza. Da dove viene questo frutto delicato dell'amaro di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti? Forse è nella speranza che tu ci ascolti, la dolcezza? Nelle preghiere, è giusto che sia così, perché il desiderio che ti raggiungano ne è parte costitutiva. Ma nel dolore di una cosa perduta e nel lutto che allora mi opprimeva? Certo non speravo di farlo rivivere e non chiedevo questo fra le lacrime: mi limitavo al dolore e al pianto. Ero infelice e avevo perduto la mia gioia. Forse anche il pianto è cosa amara, e ci solleva solo in confronto alla nausea delle cose godute un tempo, e ora aborrite?

Ma perché dico questo? Non è tempo di indagini questo, ma di confessioni. Ero infelice, come è infelice ogni mente conquistata dall'amicizia di cose mortali, che è fatta a pezzi quando poi le perde. E solo allora sente tutta l'infelicità di cui soffriva anche prima di perderle. Così mi accadeva a quel tempo e molto amaro era il mio pianto e solo nell'amarezza trovavo pace. Ero così infelice, eppure più del mio amico avevo cara la mia stessa vita infelice. Certo, desideravo che mutasse, ma non di perderla in vece sua: non so se avrei accettato anche soltanto di morire per lui, come fecero a quanto si racconta Oreste e Pilade, che vollero - se non è solo una favola - morire almeno insieme, uno per l'altro, perché per tutt'e due peggiore della morte era il non poter vivere con l'altro. Ma in me era nato come un sentimento contrario a questo, e la noia di vivere m'era non meno opprimente della paura di morire. E quanto più lo amavo, credo, tanto più odiavo come nemica atroce la morte che me lo aveva rubato e la temevo e mi pareva sul punto di polverizzare all'improvviso ogni uomo, come aveva potuto far con quello. Sì, ero proprio in questo stato, ricordo. Tu vedi il mio cuore, mio Dio, lo vedi dentro: vedi come ricordo, speranza mia, che spazzi via questi miei sentimenti in ciò che hanno di impuro, dirigendo verso di te i miei occhi e liberando i miei piedi dal laccio. Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali, quando era morto lui che avevo amato come fosse immortale, e ancor più ero stupito di vivere io stesso, che ero un altro lui, quando lui era morto. Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell'anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un'anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore - io non volevo vivere a metà - e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato.

Che follia non saper amare gli uomini come uomini! E sciocco l'uomo che non ha misura, insofferente dei limiti umani. L'uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l'anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla giù, da qualche parte. No, non trovava pace: non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell'eleganza delle feste, non nei piaceri dell'amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia. Tutto mi faceva orrore, perfino la luce, e qualunque cosa non fosse lui era opprimente e odiosa oltre ogni sfogo di pianto: l'unica cosa in cui l'anima trovava un po' di requie. Ma quando la si distoglieva da quello, subito mi schiacciava sotto il peso della tristezza. Verso di te, signore, avrei dovuto sollevarla per curarla: lo sapevo, ma non volevo e non ce la facevo, tanto più in quanto se pensavo a te non mi eri niente di solido e fermo. Perché non eri tu, era un vuoto fantasma, era il mio errore il mio Dio. E se tentavo di appoggiarla lì, l'anima, per farla riposare, scivolava nel vuoto e di nuovo mi crollava addosso, e per me io restavo un luogo gramo, dove non potevo stare e da cui non potevo allontanarmi. Dove, via dal mio cuore, poteva fuggire il mio cuore? Dove fuggire io, via da me stesso? Dove non esser braccato da me stesso? Dal mio paese sì, però, riuscii a fuggire. I miei occhi l'avrebbero cercato meno, dove non eran soliti vederlo: e così dal borgo di Tagaste me ne venni a Cartagine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nota 1

L'eresia manichea, aborrita dalla madre di Agostino, Monica, fervente cristiana.

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