5 a.C. Nasce a Cordova in Spagna, dove viene a contatto con le idee filo-repubblicane ed anti-imperiali (Cordova si era schierata con Pompeo ai tempi della guerra civile). Giunto a Roma assai presto, riceve istruzione retorica e filosofica: tra i suoi maestri egli ricorda Papirio Fabiano della scuola dei Sestii, lo stoico Attalo, il neopitagorico Sozione, da cui apprende abitudini di vita sobrie ed austere già ereditate dalla madre. Entra a far parte della setta dei Sestii, molto attiva fra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., che predica una morale intransigente ed un rigoroso ascetismo psicofisico (esame di coscienza, dieta vegetariana); la persecuzione di Tiberio nei confronti di questa setta lo costringe a fuggire in Egitto. 31-32 d.C. Torna a Roma e diviene senatore. Sotto Caligola (37-41) rischia la condanna a morte. 41 d.C. L'imperatore Claudio lo manda in esilio in Corsica, accusandolo di adulterio con Giulia Livilla, sorella di Caligola e nipote di Claudio; qui rimane 8 anni. Torna a Roma grazie ad Agrippina, che lo vuole come precettore per il figlio Nerone. 54 d.C. Forse coinvolto nella morte per avvelenamento di Claudio, Seneca tenta di riscattarsi agli occhi dei Romani scrivendo il discorso di elogio che Nerone pronuncia in Senato in onore dell'imperatore. Seneca gestisce il potere del giovanissimo imperatore per più di 4 anni, affiancato da Agrippina e dal prefetto del pretorio Burro (54-58 d. C. = "quinquennio felice"). 59 d.C. Agrippina muore per mano dei sicari di Nerone. Seneca scrive un discorso di accusa nei confronti della defunta e lo pronuncia in Senato: reazione indignata di Trasea Peto, leader dell’opposizione stoica al principato, che lascia la seduta. 62 d.C. Muore il prefetto del pretorio Burro, che viene sostituito dal famigerato Tigellino. Nerone scavalca il suo precettore ed assume il potere, dietro le direttive di Poppea. Seneca, perciò, si ritira a vita privata. Si sposa con la giovanissima Paolina. 65 d.C. Coinvolto nella congiura dei Pisoni, ormai inviso a Nerone e al nuovo prefetto del pretorio, riceve da Nerone l'ordine di uccidersi; sceglie la morte del saggio stoico, facendosi aprire le vene (la descrizione della sua morte è riportata da Tacito negli Annales). La moglie Paolina vorrebbe seguire la sorte del marito, ma viene salvata dai soldati di Nerone.
di FILOSOFIA: Dialogi (10) in 12 libri:
De clementia in 3 libri. De beneficiis in 7 libri. Epistulae morales ad Lucilium: 124 lettere in 20 libri.
SCIENTIFICO-NATURALISTICHE: Naturales quaestiones in 7 libri. Miste di PROSA e POESIA: una satira menippea, la Apokolokyntòsis divi Claudii o Ludus de morte Claudii. TEATRALI: 9 cothurnatae (= tragedie di ambientazione greca):
ed una praetexta (= tragedia di ambientazione latina), sicuramente spuria, l'Octavia.
I DIALOGI: così nominati in Quintiliano, non sono dialoghi di stampo platonico o ciceroniano (eccezion fatta per il De tranquillitate animi), ma seguono piuttosto la linea della diatriba cinico-stoica (l’autore che parla in prima persona ha come interlocutore il dedicatario dell’opera o un personaggio fittizio); quello operato da Seneca è dunque un vero e proprio spostamento semantico del termine dialogus. Consolatio ad Marciam (39): è dedicata a Marcia, figlia di Cremuzio Cordo, lo storico morto suicida, per consolarla della morte del figlio; Seneca ne fa un'occasione per affrontare il delicato tema del suicidio, che, coerentemente con i princìpi della dottrina stoica, è visto come positivo se motivato da una scelta compiuta razionalmente: la vita non è un bene in assoluto, ma è utile e positiva solo se vissuta in modo decoroso; il suicidio dunque può essere strumento di affermazione della libertà individuale. Modello di questo dialogus è la Consolatio ad se ipsum di Cicerone. De ira in 3 libri (41): in base ai princìpi stoici, sommo bene è il lògos, e quindi tutto ciò che non è razionale è male e va evitato. L'ira è scelta di proposito fra le emozioni da evitare, in contrapposizione alla tesi aristotelico-peripatetica che ne fa uno strumento di stimolo all'azione. Per Seneca essa è semplicemente desiderio di punizione che si esprime in modo sbagliato; la giusta volontà punitiva è invece una lucida decisione maturata "a freddo", razionalmente. Seneca dunque mette in guardia sulle circostanze che provocano l'ira, onde prevenirla. Consolatio ad Helviam Matrem (42-43): è dedicata a sua madre per la "perdita" del figlio, costretto in esilio in Corsica. Segue la topica consueta della consolatio ed espone le argomentazioni di consolazione tipiche del saggio stoico (autàrkeia = autosufficienza). Consolatio ad Polybium (42-43): dedicata a Polibio, potente liberto e consigliere di Claudio, per la morte di un fratello. L'intento è evidentemente adulatorio nei confronti del princeps, nel tentativo di convincerlo a richiamarlo in Roma dall'esilio forzato. De vita beata (58): la felicità, considerata come il sommo bene dalle filosofie ellenistiche, si ottiene, secondo gli epicurei, attraverso la hedonè, il piacere, ed il rifiuto della sofferenza, identificata con il male; secondo gli stoici, invece, il dolore non è un male, è anzi necessario all'uomo per migliorarsi. Seneca identifica il sommo bene con la virtus, ossia l'autodisciplina che l'uomo deve imporre alla propria componente emotiva. In questo Seneca, esponente del Terzo Stoicismo, è perfettamente coerente con i princìpi della dottrina stoica; egli è però conscio che le sue azioni non sono sempre coerenti con il suo pensiero: ma, si giustifica il filosofo, il saggio stoico non deve incarnare la verità, bensì solo indicarla agli altri ("fate quel che dico, non fate quel che faccio"). De otio (62): in quest’opera tarda, posteriore al ritiro a vita privata, Seneca, per quanto riguarda la problematica relativa all’otium (ossia alla vita contemplativa), prende le distanze dalla rigorosa etica stoica: quando l'impegno politico diviene impossibile o richiede compromessi troppo squallidi, meglio ripiegare su altre attività, quali letteratura e filosofia (posizione, questa, già di Sallustio). Il saggio stoico deve essere utile alla collettività; se ciò gli è impedito, lo sia almeno a se stesso e alla cerchia dei suoi amici. De providentia (?): Seneca non intende in questa sede dimostrare l'esistenza di Dio e della Provvidenza, di cui è convinto; l'interrogativo che si pone, e a cui cerca di dare risposta, è piuttosto come possa un Dio provvidenziale ammettere l'esistenza del male. Seneca riprende qui la tematica della sofferenza, che non è male, ma è una sorta di banco di prova su cui la divinità saggia la tempra umana; male è per Seneca contrastare la volontà divina (il che è peraltro impossibile: aporìa concettuale). De constantia sapientis (42? 62?): Seneca vi espone nuovamente la tesi stoica dell'imperturbabilità del saggio; il sapiente non può subire offesa perché è in possesso dell’unico vero bene: la serenità interiore. De tranquillitate animi (?): sappiamo per certo che questo dialogo è posteriore al De constantia sapientis; è l'unico in forma effettivamente dialogica. Tratta della serenità dell'anima. Il destinatario, Anneo Sereno, è introdotto a parlare per chiedere aiuto in un momento di turbamento psicologico: come si può raggiungere la serenità? Non certo cambiando luogo o viaggiando di continuo ("ovunque tu vada ti porti dietro te stesso"), bensì facendo il bene, vivendo in modo frugale, frequentando buone compagnie, accettando la necessità della sofferenza e della morte. De brevitate vitae (42? 62?): la vita dell'uomo non è mai troppo breve se vissuta intensamente. Non in quantità, ma in qualità si misura il valore della vita umana: "longa est vita si plena".
LE ALTRE OPERE FILOSOFICHE: i trattati. De clementia: non è un vero e proprio trattato di politica: risale ai primi anni del regno di Nerone, ed il suo scopo è l'educazione del giovane principe. La posizione di Seneca nei confronti della monarchia denota una lucida coscienza politica: non hanno ormai più senso le nostalgie repubblicane (e con esse l'opposizione stoica al principato): Seneca accetta dunque la forma istituzionale del principato (che peraltro è specchio dell’ordinamento cosmico: un unico Dio, un unico princeps); ciò che contesta è la sua degenerazione e l'abuso di essa; per essere una figura positiva, il princeps dev’essere come un padre per i suoi sudditi (paternalismo illuminato). De beneficiis (62-64): ci mostra un Seneca ormai disincantato e deluso, che ha visto fallire in pieno il suo programma pedagogico e politico. Seneca si rivolge perciò ora, con gli stessi ideali di fondo, ad un nuovo pubblico: la classe abbiente, la sola che possa opporre un rimedio alla povertà e alla miseria delle masse, se educata alla generosità e alla benevolenza. E' la stessa ottica paternalistica in cui si inquadrava il suo programma politico, e possiede già in nuce gli elementi della non lontana dottrina cristiana. È incentrato sul significato del beneficio (che cosa significa "fare del bene"?) e soprattutto sulla disposizione d’animo di chi lo fa e di chi lo riceve. Epistulae morales ad Lucilium: sono le 124 lettere, divise in 20 libri, che Seneca scrisse all’amico Lucilio, per lo più dopo il 62. Seneca non è più un personaggio pubblico, e si esprime in questa sede con un linguaggio più discorsivo e colloquiale di quello a cui ci aveva abituati; nonostante la forma privata dell'epistolario, avvertiamo comunque che Seneca teneva in considerazione la futura pubblicazione delle sue lettere. I temi trattati sono molteplici e vari e già presenti in alcuni Dialogi, ma due sono i motivi ricorrenti: la figura del saggio stoico e la morte. La filosofia senecana trova nell'epistolario un'esposizione pressoché completa, anche se non sistematica. E' questo un "difetto" riconosciuto al pensiero senecano da alcuni critici: facilmente contestabile, però, se si considera che una filosofia focalizzata sull'etica, come tipico della Terza Stoà, non necessita di sistematicità in senso classico. Naturales quaestiones, in 7 l.: per la datazione si fa riferimento ad una cometa apparsa nel 60 d. C. e ad un terremoto che danneggiò Pompei nel 62. Rispondono anch'esse alla necessità di ripiegare su attività alternative all'impegno politico diretto. Sono di fatto un tentativo di collegare scienza e morale, evidente già dalla struttura delle singole quaestiones, ciascuna introdotta da un problema di carattere etico e conclusa in una specie di "morale" o comunque dalle conseguenze etiche della quaestio trattata. L’opera ha come argomento la scienza della terra, la fisica e i fenomeni atmosferici. Solo con lo studio dei fenomeni fisici si può vincere la paura e l’ignoranza: quindi la fisica è pertinente alla morale. Ha carattere dossografico (vengono cioè riportate le opinioni di filosofi greci e latini). Si deplora il comportamento di chi mette le scoperte scientifiche al servizio dei propri vizi. Seneca conclude l’opera con la certezza che le scoperte scientifiche continueranno e che le generazioni future conosceranno cose che ora non si conoscono.
LE TRAGEDIE: Delle molte tragedie del repertorio senecano che possediamo, la praetexta spuria (l'Octavia) è forse la più celebre: essa riguarda la morte della giovanissima Ottavia, sposa di Nerone, sacrificata per permettere le nozze del princeps con Poppea. Sicuramente falsa, in quanto troppo... "profetica" riguardo alla morte di Nerone, avvenuta dopo quella di Seneca, e poi per la comparsa dello stesso Seneca fra i personaggi, è tuttavia un'opera interessante, il cui vero autore potrebbe essere Anneo Cornuto, liberto di Seneca e maestro di filosofia. Le 9 cothurnatae in nostro possesso sono tratte da opere dei tragici greci a noi note, eccezion fatta per il Thyestes. Le tragedie senecane presentano alcuni interessanti problemi interpretativi, a cominciare dalla cronologia della composizione, legata ad un quesito di base: sono state composte per fini puramente artistici o con obiettivi politici? Se infatti rientrano nel progetto pedagogico di educazione del princeps, sono databili ai primi anni del principato di Nerone; se invece si tratta di un ripiego artistico del Seneca deluso dalla politica, sono databili agli ultimi anni della sua vita. E ancora: erano destinate alla rappresentazione o alla lettura nelle sale di recitazione (recitatio)? L'uccisione dei figli di Medea in scena (quando sappiamo che, per questioni educative, sin dai primi tragici greci gli omicidi non potevano avvenire in scena) e lo stile tipico della recitatio inducono buona parte della critica a propendere per la seconda ipotesi. Infine è da sottolineare che il tragico in Seneca non rispetta lo spirito dei modelli greci: è un tragico, il suo, ideologico piuttosto che tematico: la realtà esistenziale è assolutamente negativa, e nell'opera compaiono come personaggi positivi solo e sempre i minori, i subalterni, destinati comunque a rimanere inascoltati. L'aspetto che più colpisce dei personaggi di Seneca è che non dialogano fra loro: parlano, ma non si ascoltano. Lo stile della tragedia senecana è fortemente influenzato dalla retorica asiana (stile gonfio, barocco, gusto per il macabro). Eccone il contenuto in estrema sintesi: Hercules Furens: Ercole impazzito uccide moglie e figli, poi, rinsavito, va ad Atene (modello è l' "Eracle" di Euripide). Troades: descrive il dramma delle donne troiane destinate alla schiavitù presso i capi greci (modello sono le "Troiane" di Euripide). Phoenissae: tratta il mito di Edipo e la rivalità dei figli Eteocle e Polinice per succedere al trono (modello sono le "Fenicie" di Euripide). Medea: Medea, per vendicarsi dell’abbandono da parte di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui (modello è la "Medea" di Euripide). Phaedra: tratta dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro Ippolito. La tragedia è di estremo interesse documentario perché non rispecchia affatto la trama dell’ "Ippolito coronato" di Euripide, che dovrebbe esserne il modello; la critica suppone pertanto che il prototipo di questa tragedia fosse il perduto "Ippolito velato", dramma giudicato troppo scandaloso dal pubblico ateniese e pertanto "rifatto" da Euripide l’anno successivo (428 a.C.) con il titolo di "Ippolito coronato"; Oedipus: Edipo scopre di essere l’uccisore del padre Laio e di avere sposato la madre Giocasta (modello è l' "Edipo re" di Sofocle). Agamemnon: vi è rappresentato l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra (modello è l' "Agamennone" di Eschilo). Thyestes: è la più celebre (e truculenta) fra le tragedie senecane: riprende l’atroce misfatto di Atreo, che imbandisce a Tieste le carni dei suoi figli. Hercules Oetaeus: Ercole è ucciso dalla tunica intrisa del sangue velenoso del centauro Nesso, inviatagli dalla moglie Deianira con l’intenzione di riportarlo al suo amore (modello sono le "Trachinie" di Sofocle).
L’ultima opera del corpus senecano, prosimetrica (= mista di prosa e versi), com’è tipico della satira menippea, è la Apokolokyntòsis divi Claudii (già nel titolo parodistica: Apokolokyntòsis sta per Apotheòsis). Il significato del titolo (Apokolokyntòsis = "inzuccatura", "trasformazione in zucca"?) è controverso: secondo una diffusa ipotesi, esso significherebbe che alla sua morte Claudio, invece di essere assunto fra gli dèi, è stato assunto... fra le zucche (o gli zucchini); nulla di simile accade però nell’opera. Altri traducono "Infinocchiatura del divino Claudio", essendo per lui l'apoteosi una vera fregatura (egli non sarà affatto divinizzato)! La critica riconosce piuttosto uniformemente che, per essere una satira, manca alla Apokolokyntòsis la vis polemica: più che un'invettiva sembra un (pesante) scherzo, un ludus. E forse, a giudicare dal sottotitolo (Ludus de morte Claudii), proprio questo voleva essere. Contenuto: Dopo che Mercurio riesce ad ottenere che Claudio esali finalmente l’anima, cessando così di sembrare vivo, si presenta a Giove un essere mostruoso, zoppo e che parla in modo incoerente. Viene creduto un mostro e sottoposto all’attenzione di Ercole, convinto di dover affrontare la sua tredicesima fatica. Dopo aver interrogato Claudio, Ercole si esprime negativamente, ma Giove, nonostante tutto, sarebbe dell’idea di divinizzarlo. Si avanza allora Augusto, che elenca tutte le malefatte di Claudio, per cui si decide di inviarlo agli Inferi. Accompagnato da Mercurio, passando per la via Sacra, Claudio assiste al suo funerale e si rende finalmente conto di essere morto. Nell’Ade viene accolto da tutte le sue vittime e viene condannato a giocare ai dadi con un bossolo senza fondo. Caligola lo vorrebbe come suo schiavo, ma Claudio viene assegnato al suo liberto Menandro. Il tono è evidentemente, e pesantemente, parodistico: vengono messe alla berlina le fissazioni maniacali di Claudio, la sua infermità fisica (era probabilmente spastico) e la sua presunta stupidità.
Dal punto di vista stilistico Seneca costituisce una vera rivoluzione nella prosa latina. La sua prosa è caratterizzata dalla inconcinnitas, che lo porta a scrivere periodi asimmetrici brevi con frasi incalzanti e ricche di sentenze, scarne ed essenziali. Notevole il ricorso a figure retoriche quali la metafora e l’anafora (quest’ultima rende più incalzante il periodare). Notevole anche la coordinazione per asindeto e l’abbondanza di ellissi del verbo, ma anche di altri termini, e la variatio dei tempi e dei modi verbali. Frequenti anche i neologismi. Si tratta di uno stile asiano, non però quello roboante e magniloquente dell’epoca di Cicerone, bensì un asianesimo più raffinato e più semplice, il cosiddetto asianesimo imperiale, adatto all’analisi psicologica. Lo scrittore mira alla verità e a colpire le coscienze con parole che siano lo specchio del pensiero, per provocare la riflessione.
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