(Calagurris, 35 d.C. - Roma, dopo il 95 d.C.)
68 d.C.: Galba lo richiama a Roma come maestro di retorica e ancora come avvocato: Plinio il Giovane e (forse) Tacito sono suoi allievi. 78 d.C.: Vespasiano gli affida la prima cattedra statale (100.000 sesterzi all'anno il favoloso stipendio). Domiziano lo incarica dell'educazione dei suoi nipoti. 88 d.C.: si ritira dall'insegnamento e dall'attività forense, dedicandosi solo agli studi. Dopo il 95: muore.
Temi dell'opera: La corruzione dell'eloquenza, di cui Quintiliano si era già occupato nell’opera specificamente dedicata all’argomento, è per lui conseguente alla degradazione morale di un’intera generazione ed è particolarmente evidente dal decadimento delle scuole (in cui l'affermarsi delle declamationes è per Quintiliano un sintomo di decadenza anche letteraria e di gusto). L'Institutio oratoria vuole essere proprio il programma di rifondazione della scuola. Anzitutto Quintiliano prende in esame, nei primi due libri, la delicata questione del rapporto educativo, delineando quale dev’essere il ruolo del docente a tutti i livelli d’insegnamento ed indicando come necessità primaria la serietà morale; da questa parte introduttiva emerge con chiarezza l’altissimo concetto dell’educazione proprio dell’autore, l’estrema serietà del suo impegno in tal senso, l’acume psicologico con cui si accosta al discente, con profondo amore e straordinario rispetto, fornendo indicazioni di valore universale agli insegnanti ed agli educatori di tutti i tempi. Quindi, nel delineare i contenuti dell’insegnamento medio superiore, Quintiliano riprende programmaticamente l'eredità di Cicerone, adattandola ai propri tempi, nella convinzione che un uso linguistico "sano" sia nello stesso tempo conseguenza e causa di un atteggiamento mentale (e di conseguenza morale e sociale) "sano". Uno stile come quello di Seneca, ad esempio, che disarticola il periodo e sottintende i connettivi sintattici, risulta a parere di Quintiliano profondamente diseducativo per i giovani, perché impedisce loro di cogliere i nessi logici esistenti fra le cose; al contrario, uno stile che preveda una rigorosa organizzazione sintattica li abituerà a stabilire rapporti gerarchici corretti fra i molteplici aspetti della realtà: questo modello stilistico "classico" è chiaramente identificato da Quintiliano nelle ampie e ben strutturate architetture linguistiche di Cicerone. Lo stile del perfetto oratore, tuttavia, non deve riecheggiare quello ciceroniano in modo pedissequo e manieristico: Quintiliano auspica soprattutto l'equilibrio fra i due eccessi più in voga al momento, quello dell’asciutto arcaismo e quello dell'asianesimo sovraccarico ed ampolloso (Lucano) oppure conciso e martellante (Seneca); per questo suo ideale di equilibrio classico Quintiliano sarà molto amato dalla cultura del Rinascimento. Come Cicerone, così anche Quintiliano è convinto che il buon oratore debba possedere un'ampia cultura; tuttavia per lui la filosofia appare meno importante che per Cicerone. L'intellettuale e il potere: Quintiliano nel 12° libro dell’Institutio affronta il delicato tema dei rapporti fra l’intellettuale ed il potere imperiale. Egli accetta l'autorità del principato, ma non incondizionatamente: deve trattarsi di un "buon" principato, di un governo illuminato che permetta all’intellettuale di ritagliarsi i suoi spazi di indipendenza e di dignità professionale, di svolgere un ruolo importante per il principe e per la società, evitando gli opposti eccessi (deprecati anche da Tacito) della sterile opposizione al principato e del servilismo, fungendo da guida per il senato ed il popolo. Il suo è per molti versi un giudizio miope ed antistorico: in una realtà come quella del principato, la sola libertà possibile per un intellettuale "integrato" è quella dell’ossequio nei confronti delle direttive di regime, e se la situazione può apparire positiva è solo perché si verifica casualmente una coincidenza di vedute tra il letterato ed il princeps: in caso contrario non vi sono correttivi possibili ed all’intellettuale non resta che il silenzio. D’altronde come potrebbe essere diversamente, quando l’oratore non è che un subalterno (principescamente stipendiato!), un "burocrate della parola" (Conte), un onesto funzionario che comunica al pubblico le direttive del princeps, mediate dalla forma letteraria? Ben più lucida sarà la diagnosi formulata da Tacito (se è suo il Dialogus de oratoribus), secondo il quale la fine della libertà repubblicana ha determinato di fatto per gli intellettuali, e per gli oratori in particolare, la perdita di ogni incidenza politica e l’impossibilità di ricoprire un ruolo socialmente rilevante (di qui la decadenza dell’eloquenza e della cultura in genere). |
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