Parliamo di...

...rispetto per gli animali

 Plutarco

"Sul mangiare carne"

Plutarco, il celebre scrittore di Cheronea vissuto nel I secolo d.C., è autore di alcune operette di notevole interesse e spessore etico (i cosiddetti Moralia, mai tradotti per intero in Italia), come il De esu carnium, considerato una sorta di "manifesto" dei vegetariani, del quale riportiamo di seguito uno stralcio.
In esso l'autore, che personalmente nutriva profondo amore per gli animali, esprime con toni accorati il suo disgusto e il suo disprezzo per coloro che si cibano di carne (da lui chiamati "sarcòfagi"), mettendo così in luce l'evidente debito che il pensiero platonico, di cui egli era esponente, ha nei confronti di quello pitagorico: Pitagora infatti, convinto dell'esistenza della reincarnazione, proibiva categoricamente ai suoi seguaci di cibarsi di carne.
Anche in altre opere Plutarco entra in polemica con alcuni pensatori a lui contemporanei sul delicato ed attualissimo tema del rispetto dovuto dall'uomo agli altri esseri viventi: in particolare, netto è il suo rifiuto del pensiero stoico, che, considerando l'uomo come lo scopo di tutta la creazione, subordina a lui tutto il resto del creato. La sensibilità plutarchea, infatti, gli impedisce di considerare "inferiori" le altre creature.
Davvero un grand'uomo (e un grande esempio per tutti noi).

 

De esu carnium

(993 a - 994 b)

Tu mi chiedi in base a quale ragionamento Pitagora si sia astenuto dal mangiare carne: io invece domando, pieno di meraviglia, con quale disposizione, animo o pensiero il primo uomo abbia toccato con la bocca il sangue e sfiorato con le labbra la carne di un animale ucciso, imbandendo le tavole con cadaveri e simulacri senza vita; e abbia altresì chiamato 'cibi prelibati' quelle membra che solo poco prima muggivano, gridavano e si muovevano e vedevano. Come poté la vista sopportare l'uccisione di esseri che venivano sgozzati, scorticati e fatti a pezzi, come l'olfatto resse il fetore? Come una tale contaminazione non ripugnò al gusto, nel toccare le piaghe di altri esseri viventi e nel bere gli umori e il sangue di ferite letali?

 

"Le pelli strisciavano, le carni agli spiedi muggivano
cotte e crude, e c'era come un suono di vacche".1

Questa non è che finzione, favola; tuttavia un simile pasto è veramente mostruoso: desiderare di cibarsi di un essere che ancora sta muggendo e designare gli animali di cui nutrirsi mentre ancora emettono suoni, predisponendo i modi di condirli, arrostirli, servirli: si dovrebbe cercare colui che per primo ha dato inizio a tutto questo, e non chi, più tardi, se ne sia astenuto. Forse qualcuno potrebbe dire che per quei primi che si dettero alla sarcofagia la causa fu proprio la mancanza di risorse; e in effetti essi non giunsero a queste pratiche eccedendo in piaceri anomali, contro natura, né mentre indulgevano a desideri illegittimi o godevano di una certa abbondanza di cose necessarie. Ma se costoro oggi riacquistassero la voce e potessero esprimere il loro sentire, direbbero: "O beati e cari agli dèi voi che vivete ora, quale età della vita vi è dato in sorte di godere e quale abbondanza inesauribile di beni vi è concessa! Quante cose nascono per voi, quante ne vengono vendemmiate; quanti beni sono nei campi, quante cose piacevoli a disposizione per essere còlte dalle piante! Vi è consentito anche di vivere nel lusso senza contaminarvi. Noi, invece, ci accolse la più nefasta e temibile età del tempo e della vita, gettandoci in una profonda e irrimediabile povertà, fin dalla prima origine; l'aria - mischiata a torbida e instabile umidità, al fuoco e alla furia dei venti - ancora celava il cielo e gli astri; 'non si era ancora costituito un sole' che, tenendo il corso costante e stabile

 
"distinguesse l'aurora e il tramonto; e che lo
portasse intorno e di nuovo indietro,
coronandolo di stagioni portatrici di frutti e
inghirlandate di fiori; anzi, la terra era devastata"2

dagli straripamenti disordinati dei fiumi e in grande misura "informe per il fango"; ed era resa selvaggia da profonde paludi, boscaglie e macchie infruttifere; non vi era raccolto di dolci frutti, nessuno strumento di produzione né espedienti derivati dall'abilità. Ma intanto la fame non dava tregua e la semina degli uomini di allora non aspettava le stagioni dell'anno. Che c'è da meravigliarsi dunque se, agendo contro natura, abbiamo fatto uso della carne degli animali, quando si mangiava il fango e "si divorava la corteccia del legno" ed era considerata buona sorte trovare gramigna vigorosa o una qualche radice di giunco? Quando si gustava, si mangiava una ghianda, si danzava per la gioia attorno a un faggio o a una quercia, chiamandoli 'donatore di vita', 'madre', 'nutrice': la vita, allora, conosceva solo questa festa, mentre tutto il resto era pieno di turbamento e mestizia.

Ma quale rabbia, e in che modo, e quale furore spinge oggi a stragi scellerate voi, voi cui tanto avanza di cose necessarie? Perché insultate la terra come se non fosse in grado di nutrirvi? Perché commettete empietà nei confronti di Demetra, dispensatrice di leggi, e disonorate l'amorevole Dioniso, il signore dei vigneti, come se da essi non riceveste quanto basta? Non vi vergognate di mischiare i dolci frutti con sangue e morte?

Chiamate selvaggi i serpenti, le pantere e i leoni, ma voi stessi uccidete con ferocia, per nulla inferiori ad essi quanto a crudeltà: per essi infatti l'animale ucciso è nutrimento, per voi è solo un manicaretto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Omero, Odissea 12. 395

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Empedocle B 154

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