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Parodo (vv. 96-130)

 

Medea [da dentro]: Ahimè, me infelice, affaticata dai travagli, ahimè! Come potrei morire?

NutriceQuesto (è) quello (che dicevo) cari figli; la madre ha il cuore che ribolle d’ira (lett.: agita il cuore, agita l’ira), affrettatevi (a entrare) più presto in casa e non state troppo vicino al (suo) sguardo e non avvicinatevi (a lei), ma guardatevi dall’indole selvaggia e dalla natura ostile di una mente orgogliosa. Andate ora, entrate al più presto. (È) chiaro che la nube di dolore che ora si leva (lett.: che si solleva dall’inizio), al più presto divamperà con più violento furore: che cosa mai farà un animo altero, difficilmente placabile, sconvolto (lett.: morso) dalle sventure?

Medea:   Ahimè! Soffrii, infelice, soffrii sventure (lett.: cose) degne di grandi lamenti; maledetti figli di una madre odiosa, possiate morire con (vostro) padre e tutta la casa possa andare in rovina!

Nutrice:   Ahimè, ahimè, infelice! Ma in che cosa i (tuoi) figli sono partecipi (lett.: ti partecipano) delle colpe del padre? Perché li odii? Ahimè, figli, come terribilmente soffro (nel timore) che dobbiate subire qualcosa (di grave)! Il volere (lett.: i voleri) dei sovrani  sono terribili e in genere obbedendo poco (e) comandando molte volte, difficilmente depongono le (loro) ire. (È)  senz’altro meglio essere abituati a vivere tra uguali; a me dunque sia concesso invecchiare nella sicurezza di una vita mediocre (lett.: sicuramente in cose non grandi). Infatti già solo (lett.: prima di tutto) a pronunciarlo il nome della moderazione  è vincente (lett.: vince), ma per gli uomini (è) di gran lunga preferibile a praticarsi. L’eccesso invece non può (portare) nessun vantaggio ai mortali, anzi, quando un dio si adiri con con le case, reca (loro) maggiori sventure.

 

 

Primo episodio: vv. 214-409

 

Medea:  Donne corinzie, uscii di casa perché non mi biasimaste; so infatti che molti dei mortali sono diventati alteri, alcuni (stando) lontano dagli sguardi, altri (essendo) tra stranieri; altri poi, dal comportamento riservato (lett.: dal piede tranquillo) acquistarono cattiva fama di non curanza (lett.: cattiva fama e non curanza). Giustizia non risiede infatti negli occhi dei mortali, se uno di loro (lett.: chiunque) prima di aver conosciuto con chiarezza le profondità dell’animo (lett.: le viscere) di un uomo lo odia a prima vista (lett.: dopo averlo guardato), pur non avendo ricevuto alcuna offesa. Ma bisogna che uno straniero si adegui saldamente alla città; e neppure lodo un cittadino che, divenuto altero, sia avverso ai (suoi) concittadini per ignoranza.

v. 225    Ma a me questo fatto, sopraggiunto inatteso, ha distrutto l’anima; sono finita (lett.: me ne vado) e, avendo perduto il piacere della vita, desidero morire, amiche. Il mio sposo infatti, nel quale era per me possibile avere una visione positiva di tutto (lett.: conoscere bene tutto), è risultato il peggiore degli uomini.

v. 230     Di tutti (gli esseri) che sono viventi e (che) possiedono intelligenza, noi donne siamo la razza più infelice: (noi) che prima di tutto dobbiamo comprarci con una gran quantità (lett.: eccesso) di denaro uno sposo e prender(lo) come padrone del (nostro) corpo; questo infatti (è) un male ancora più doloroso di (quel) male.

v.235      E in questo c’è un rischio grandissimo: o prendere un (marito) cattivo o (prenderne) uno buono. Infatti non sono onorevoli i divorzi per le donne, né (è) possibile ripudiare uno sposo. Poi, giunta tra nuovi costumi e (nuove) leggi, bisogna che sia un’indovina, non avendo imparato da casa di chi soprattutto si servirà come compagno di letto

v. 241     E se lo sposo, grazie ai nostri sforzi, starà bene con noi senza sopportare (lett.: qualora lo sposo conviva bene con noi che ci sforziamo in queste cose, non sopportando) il giogo a forza, la vita (è) invidiabile, se no, meglio morire. L’uomo invece quando non sopporta di stare in casa con i suoi (lett.: con quelli dentro), uscito fuori, pone fine alla noia che lo angustia (lett.: fa cessare il cuore dalla noia) [recatosi o da un amico o da un coetaneo]; a noi invece è necessario volgere lo sguardo a una sola persona.

v. 247     Dicono poi che noi viviamo una vita priva di pericoli in casa, mentre loro combattono con la lancia; si sbagliano (lett.: pensando male): perché tre volte vorrei stare presso uno scudo piuttosto che partorire una sola volta.

v. 252     Ma in realtà a te e a me non si addice il medesimo discorso; tu hai una (lett.: questa) città e una casa paterna e gioia di vita e compagnia di amici, io invece essendo sola e senza patria (lett.: senza città) sono oltraggiata da un uomo, portata via come una preda (lett.: depredata) da una terra straniera, senza (lett.: non avendo) madre né un fratello né un parente per cercare rifugio (lett.: mutare ormeggio) da questa sventura.

v. 259     Solo questo (lett.: tanto) voglio (lett.: vorrò) ottenere da te, se riuscirò a trovare (lett.: sarà escogitato da me) un mezzo e un sistema per far pagare il fio di questi mali al (mio) sposo [e a chi gli diede la figlia e a colui che (lo) sposò], che tu taccia (lett.: tacere). Una donna infatti, quanto al resto, è piena di paura e vile di fronte alla forza e nel guardare un’arma, ma quando venga umiliata nei rapporti matrimoniali (lett.: si trovi ad essere offesa nel letto), non esiste un altro cuore più sanguinario (del suo).

Coro:      Lo farò (lett.: farò queste cose): infatti ti vendicherai giustamente del (tuo) sposo, Medea. Non mi meraviglio che tu ti affligga per (le tue) sventure. Ma ecco, vedo arrivare Creonte, signore di questa terra, nunzio di nuove decisioni.

Creonte: Ordino che tu, Medea, quella dallo sguardo torvo e dall’animo adirato verso lo sposo, te ne vada fuori da questa terra, esule, dopo aver preso con te i (tuoi) due figli e (ti ordino) di non indugiare (neanche) un po’. Poiché io sono arbitro di questo ordine (lett.: discorso) e non me ne andrò di nuovo a casa prima di averti (lett.: prima che ti abbia ) gettata fuori dai confini di (questa) terra.

Medea:   Ahimè, (io) l’infelice, sono rovinata, completamente distrutta! I (miei) nemici infatti mollano (contro di me) ogni fune (oppure: spiegano tutte le vele) e non c’è (per me) un facile approdo (lontano) dalla sventura. Ma anche trovandomi nella disperazione (lett.: soffrendo malamente), tuttavia (ti) domanderò: “Per quale motivo, Creonte, (mi) scacci da (questa) terra?”

Creonte: Temo che tu – non bisogna per nulla velare le parole – faccia (lett.: temo te che mi faccia) qualche male irrimediabile a (mia) figlia. E molti motivi concorrono a questa paura: (tu) sei abile e esperta di molti mali e soffri, privata dell’amore di tuo marito. Sento dire che tu minacci, come mi riferiscono, di fare qualche cosa a colui che (la) diede (in sposa), a chi (la) sposò e alla sposa. Eviterò dunque queste disgrazie prima di soffrir(le). Meglio per me rendermi odioso a te ora, o donna, che piangere molto dopo, (per essermi) intenerito.

Medea:   Ahi, ahi! Non ora per la prima volta ma spesso, o Creonte la fama mi danneggiò e mi ha procurato grandi mali. Un uomo che sia per natura assennato non deve mai far istruire i figli (in modo che diventino) eccessivamente sapienti; infatti, oltre a un’altra accusa di ignavia che possiedono, si procurano da parte dei cittadini invidia ostile. Infatti se esponi (lett.: esponendo) a (uomini) ignoranti novità sapienti, sembrerà che tu sia (lett.: sembrerai essere per natura) inutile e non sapiente; d’altra parte invece se sei ritenuto (lett.: ritenuto) superiore a coloro che hanno fama di possedere gran varietà di conoscenze (lett.: che sembrano conoscere qualcosa di vario), apparirai molesto alla città.

              E anche io stessa partecipo di questa sorte. Infatti, poiché sono sapiente, per alcuni sono odiosa (oppure: oggetto di invidia), per altri fannullona, per altri di carattere contrario, per altri ancora antipatica: ma (io) non sono troppo sapiente.

Ma dunque tu mi temi (per paura) di soffrire qualcosa di spiacevole; non sono tale (lett.: così) – non trepidare davanti a me, Creonte – da recare offesa a dei sovrani. Tu infatti in che cosa mi hai offesa? Desti (tua) figlia in sposa a colui verso il quale (lett.: a chi) l’animo ti spingeva. Ma (è) il mio sposo (che) odio; tu invece facesti (lett.: facevi) ciò saggiamente, credo. E ora non sono gelosa che le cose ti vadano bene (lett.: non invidio il tuo star bene); celebrate nozze, siate felici, ma lasciatemi abitare questa terra. E infatti pur essendo stata offesa, tacerò poiché sono stata vinta da chi (mi) è superiore.

Creonte: Dici cose piacevoli a udirsi, ma (ho) paura (lett.: a me è paura) che nel (tuo) animo mediti qualche male, tanto meno di prima mi fido di te: infatti una donna pronta all’ira, come allo stesso modo un uomo, (è) più facile da controllare (lett.: a controllarsi) di un saggio taciturno. Orsù, vattene al più presto, taci (lett.: non dire parole), poiché così è stabilito (lett.: queste cose sono stabilite) e non hai modo di rimanere presso di noi dal momento che mi sei ostile.

Medea:   No, ti (prego), per le (tue) ginocchia e per (tua) figlia, giovane sposa!

Creonte: Sprechi le parole: infatti non riusciresti mai a convincermi.

Medea:   Dunque mi scaccerai e non rispetterai per nulla le (mie) preghiere?

Creonte: Non amo infatti te più della mia casa.

Medea:   O patria, che forte ricordo ho (lett.: come fortemente ho ricordo) per te adesso!

Creonte:  Per me, infatti, eccetto i figli, (è) la cosa di gran lunga più cara.

Medea:   Ahi, ahi! Che grande male sono per i mortali i sentimenti d’amore!

Creonte: Dipende, credo, dalle circostanze che li accompagnano (lett.: come eventualmente anche le circostanze (li) accompagnino).

Medea:   O Zeus, non ti sfugga colui che (è) causa di questi mali!

Creonte: Vattene, sciocca, e liberami dai problemi.

Medea:   Io ho dei problemi e non ho bisogno di (altri) problemi.

Creonte: Subito sarai scacciata a forza dalla mano dei miei servi.

Medea:   Almeno questo proprio no! Ma ti chiedo o Creonte…

Creonte: Mi darai fastidio, come sembra, o donna.

Medea:   Andremo in esilio, non questo pregai di ottenere da te.

Creonte: Ma perché opponi ancora resistenza e non te ne vai da (questa) terra?

Medea:   Lasciami rimanere quest’unico giorno e (lascia) che mi prenda cura di come andremo in esilio e del necessario per il viaggio per i miei figli poiché il padre non si preoccupa per niente dei figli. Abbi pietà di loro, anche tu sei padre di figli ed è naturale che tu abbia benevolenza. Infatti non mi preoccupo di me, se andremo in esilio, ma piango per loro colpiti da sventura.

Creonte: Il mio volere non è affatto tirannico, ma, provando pietà, mi sono danneggiato (già) molte volte; anche ora vedo che sto sbagliando, donna, e tuttavia otterrai ciò. Ma ti avverto: se la luce del nuovo giorno (lett.: la lampada che sopraggiunge del dio = il sole) vedrà te e i (tuoi) figli dentro i confini di questa terra, morirai. Le parole che ho detto non mentono (lett.: questo discorso è stato detto veritiero). Ma ora se bisogna che (tu) rimanga, rimani per un solo giorno: infatti non farai nessuna delle terribili cose che temo (lett.: alcuna cosa terribile di quelle delle quali paura mi tiene.

Coro:      Infelice donna, ahimè, sventurata per i tuoi mali, dove mai ti volgerai? A quale ospitalità? Troverai una casa o una terra, che ti salvino da questi mali (lett.: salvatrice dei mali)? Come ti spinse il dio in un mare tempestoso di guai, o Medea!

Medea:   È andata male in tutti i modi: chi (lo) negherà? Ma queste cose non (finiranno) così, non pensate(lo) davvero. Ci sono ancora lotte per i giovani sposi e per i suoceri non piccoli travagli. Pensi infatti che io avrei mai blandito costui, se non per avere un guadagno o per macchinare qualcosa? Né (gli) avrei rivolto la parola, né (lo) avrei toccato con le mani. Ma egli giunse a tal punto di stoltezza che pur essendo(gli) possibile, scacciandomi da (questa) terra, annientare i miei voleri, mi concesse di rimanere per questo giorno nel quale renderò cadaveri tre dei miei nemici, il padre, la figlia e il mio sposo. Ma pur avendo molte vie di morte (lett.: mortali) per loro, non so a quale mettere mano di preferenza, o amiche; se appiccare il fuoco alla casa degli sposi o spingere un pugnale affilato nel fegato, entrata in silenzio nella casa dove si trova il letto, ma una sola cosa mi è contraria: se sarò presa mentre entro in casa e attuo il (mio) piano, con la mia morte (lett.: essendo morta) offrirò (motivo di) derisione ai miei nemici. La cosa migliore (è) eliminar(li) con veleni, per la via più diritta, nella quale sono per natura molto esperta.

v. 386     E sia. Ebbene, sono morti: quale città mi accoglierà? Chi, come ospite, dopo avermi offerto una terra inviolabile e una casa sicura, salverà la mia persona? Non c’è. Dunque, dopo aver aspettato ancora un po’ di tempo nel caso ci appaia qualche sicuro baluardo, eseguirò questa uccisione con l’inganno e in silenzio. Se invece una sventura irrimediabile mi incalzerà, io stessa, avendo preso una spada, anche se devo morire, li ucciderò, ricorerò alla forza del coraggio.

v. 395     No, per la mia padrona che io onoro più di tutti e scelsi come aiutante, Ecate, che abita i recessi della mia casa, nessuno di loro, rallegrandosi, farà soffrire il mio cuore. Io invece, renderò loro le nozze amare e luttuose  e amaro il parentado e il mio esilio da (questa) terra.

v. 400     Ma orsù. Non risparmiare nessuna delle cose che conosci, Medea, deliberando e macchinando: avvìati verso l’opera terribile! Ora c’è la prova del (tuo) valore. Vedi quello che soffri: non devi essere tu motivo di derisione per le nozze sisifee e (per quelle) di Giasone, tu, nata da nobile padre e da Elio. (Tu) se esperta; inoltre noi donne siamo per natura del tutto incapaci di buone azioni, ma artefici espertissime di tutti i mali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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