Plutarco

"L'educazione dei figli"1

Paragrafi

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Che si potrebbe dire sull'educazione dei ragazzi liberi e sui metodi per farne persone serie e perbene? Vediamo un po'!

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Ma forse è meglio iniziare direttamente dal concepimento. A chi desidera avere figli che godano di buona reputazione, io suggerirei di non sposarsi con donne qualsiasi, intendo dire cortigiane o concubine, perché se uno nasce con una macchia d'origine dovuta al padre o alla madre la porta poi con sé, incancellabile, per tutta la vita e offre a chiunque lo voglia l'opportunità di rinfacciarglielo e di insultarlo. Saggiamente dice il poeta:

Quando una stirpe ha cattive le basi,

la discendenza è per forza infelice.2

Bel tesoro di libertà di parola è la bontà dei natali e chi aspira a generare figli legittimi se ne deve preoccupare moltissimo. Se l'origine è adulterata e di bassa lega, anche gli spiriti grandi sono destinati, inesorabilmente, a insuccessi e umiliazioni, e con piena ragione il poeta dice:

E si fa servo, per quanto animoso di cuore,

chi viene a sapere colpe di padre o madre.3

Chi invece vanta genitori illustri freme indubbiamente d'orgoglio e di fierezza. Si racconta, ad esempio, che il figlio di Temistocle, Diofanto, dicesse spesso e in pubblico che i suoi desideri erano condivisi anche dal popolo ateniese, perché quel che voleva lui lo voleva anche sua madre, quel che voleva sua madre lo voleva anche Temistocle e quel che voleva Temistocle lo volevano anche tutti gli Ateniesi.. Degno d'elogio davvero è anche il senso di grandezza degli Spartani, che inflissero una multa al loro re, Archidamo, perché s'era adattato a sposare una donna di bassa statura, imputandogli l'intenzione di dar loro non dei re, ma dei reucci.

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A queste considerazioni se ne potrebbe collegare un'altra, che non era trascurata nemmeno da quanti, prima di noi, si sono occupati di questi temi. Di che si tratta? Alludo al fatto che chi si unisce alla moglie con il proposito di procreare deve essere completamente sobrio o perlomeno aver bevuto moderatamente, perché chi è concepito da un padre in stato di ubriachezza finisce di solito per diventare lui stesso un avvinazzato e un ubriacone. Per questo anche Diogene, vedendo un giovinetto che delirava e farneticava: «Ragazzo mio - gli disse - tuo padre doveva essere ubriaco quando ti generò!». Ma per quel che riguarda il concepimento basti quanto ho detto. Passiamo ora ad occuparci dell'educazione.

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In generale, anche per la virtù si devono ribadire i concetti che abitualmente enunciamo a proposito delle arti e delle scienze, e cioè che per pervenire a una condotta impeccabile si richiede il concorso di tre fattori: natura, parola e abitudine. Per parola intendo l'istruzione, per abitudine l'esercizio. Le basi sono offerte dalla natura, i progressi dall'istruzione, le acquisizioni dall'applicazione, la perfetta riuscita dalla concomitanza di tutte queste condizioni. Se ne viene a mancare una, la virtù risulta inevitabilmente zoppa da quella parte: la natura senza l'istruzione è cieca, l'istruzione senza la natura è insufficiente, e l'esercizio, se difettano le altre due, è inconcludente. In agricoltura è indispensabile che ci siano anzitutto un terreno buono, poi un coltivatore esperto e infine sementi di qualità: così al terreno si possono paragonare le doti naturali, all'agricoltore il maestro, alle sementi i consigli e i precetti. Tutte queste condizioni, posso affermarlo decisamente, si incontrarono e cospirarono per dar vita alle anime, universalmente celebrate, di Pitagora, Socrate, Platone e di quanti hanno conseguito una gloria che non tramonterà mai. Segno dunque di felicità e di predilezione celeste è ricevere da un Dio tutti questi doni. Se qualcuno invece pensa che chi è scarsamente dotato, nonostante un'istruzione e un'applicazione correttamente indirizzate alla virtù, non possa compensare, nei limiti del possibile, la propria naturale pochezza, sappia che si sta sbagliando di molto, anzi del tutto. Se l'indolenza guasta le buone qualità naturali, l'insegnamento ne corregge i difetti; le mete facili sfuggono ai negligenti, ma con l'impegno si conquistano quelle difficili. Si può comprendere quanto efficaci e determinanti siano impegno e fatica osservando molti fenomeni. Le gocce d'acqua incavano le pietre; il ferro e il bronzo si consumano al continuo contatto delle mani; le ruote dei carri, una volta curvate dal tornio, non potrebbero mai, in nessun caso, riacquistare la forma rettilinea d'un tempo; è impossibile raddrizzare i bastoni ricurvi degli attori, ma ciò che è contro natura diventa con la fatica migliore di ciò che è secondo natura. Sono forse questi i soli esempi che dimostrano l'efficacia del l'impegno? No, ce ne sono infiniti altri. Un terreno è di per sé fertile, ma se lo si trascura isterilisce e anzi, quanto migliore è per natura, tanto più incuria ed abbandono lo traggono a rovina. Un altro, invece, è duro e accidentato più del dovuto, ma se lo si coltiva produce subito messi rigogliose. Quali piante, se poco curate, non crescono storte e non diventano infruttifere, mentre con un'adeguata coltivazione danno frutti e riescono a portarli a maturazione? Quale robusta costituzione non s'infiacchisce e consuma per trascuratezza, mollezza e cattiva condizione fisica? Quale natura fiacca non ha compiuto, invece, decisi progressi in robustezza, sottoponendosi a duri e faticosi allenamenti? Quali cavalli, ricevuto un buon addestramento, non sono divenuti docili ai loro cavalieri? E quali invece, per esserne rimasti privi, non sono risultati ingovernabili e ombrosi? E che senso ha stupirsi del resto quando vediamo molte tra le bestie più feroci diventare addomesticate e mansuete grazie alle fatiche? Bene rispose quel Tessalo a chi gli domandava quali fossero i Tessali più miti: «Quelli che smettono di guerreggiare». Ma che bisogno c'è di lunghi discorsi? Il carattere è un'abitudine consolidata in un lungo arco di tempo e chi definisse abituali le qualità del carattere non darebbe certo l'impressione di dire una cosa stonata. Citerò ancora un solo esempio su questo punto, evitando di dilungarmi sull'argomento. Licurgo, il legislatore degli Spartani, prese due cuccioli nati dagli stessi genitori e li allevò in modo completamente diverso, facendo diventare l'uno ingordo ed inetto, l'altro abile nel fiutare le tracce e nel cacciare. Poi, un giorno che gli Spartani erano riuniti in assemblea: «Grande importanza - disse - Spartani, per generare la virtù, rivestono le abitudini, i principi educativi, gli insegnamenti e gli orientamenti di vita, e ve lo dimostrerò subito con assoluta chiarezza». Fatti venire i cuccioli, pose loro davanti una ciotola piena di cibo e una lepre, e li lasciò liberi: subito il primo si avventò sulla lepre, l'altro invece si lanciò sulla ciotola. Gli Spartani non riuscivano ancora a capire dove volesse arrivare e a che scopo esibisse quei cuccioli: «Questi due - proseguì allora Licurgo - sono nati dagli stessi genitori, ma sono stati allevati in modo diverso: così uno è diventato ingordo, l'altro invece adatto alla caccia». E sulle abitudini e i modelli di vita bastino queste considerazioni.

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In stretta connessione con il tema precedente si potrebbe trattare ora dell'allevamento. Le madri, a mio avviso, devono nutrire personalmente i figli e porgere loro il seno, perché li alleveranno con affettuosità e premura maggiori, quasi li amassero da dentro e, come usa dire, «dalle unghie». L'affetto di balie e nutrici, invece, è insincero e fittizio, perché è pur sempre un amore mercenario. Anche la natura indica chiaramente che spetta alle madri allattare e allevare personalmente le loro creature: per questo assicura ad ogni essere che partorisce il nutrimento del latte e con previdente saggezza ha dotato le donne di due mammelle, perché se danno alla luce dei gemelli abbiano duplice la fonte del nutrimento. Ma prescindendo da tutto ciò, le madri diventerebbero più tenere e più affettuose con i figli, e non senza ragione, per Zeus!, perché il crescere assieme è come una chiave che tende la corda dell'amore. Anche gli animali, se vengono separati da quelli con cui sono allevati, mostrano chia ramente di sentirne la mancanza. Prima di tutto, si deve dunque cercare, come ho detto, che le madri allevino personalmente i figli, ma se ne fossero impedite da uno stato di debolezza (può verificarsi anche questo) o dal voler avere subito altri bambini, si eviti almeno di scegliere come balie e nutrici le prime venute, e si selezionino invece quelle che danno le migliori garanzie. E in primo luogo è fondamentale che siano greche di costumi, perché se è indispensabile plasmare fin dalla nascita le membra dei figli in modo che si sviluppino diritte e regolari, si deve analogamente modellarne fin dal primo momento il carattere. La giovinezza è qualcosa di duttile e molle, e nelle menti ancora tenere gli insegnamenti si imprimono a fondo, mentre tutto ciò che è duro è difficile da ammorbidire. Come i sigilli si imprimono nella molle cera, così le nozioni lasciano la loro impronta nelle menti dei bambini. In sintonia mi sembra la raccomandazione, rivolta dal divino Platone alle balie, di non raccontare ai bimbi neppure delle fiabe a caso, perché le loro menti non abbiano a riempirsi, fin dai primi anni, di stoltezza e di corruzione. Anche il poeta Focilide mi sembra che dia un buon consiglio quando dice:

Già ai bambini si devono insegnare le buone azioni.4

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Vale la pena in questo senso di non sottovalutare neppure quest'altra precauzione, e cioè di cercare che gli schiavetti destinati a servire i padroncini e a crescere assieme a loro abbiano anzitutto un'indole seria e poi che siano greci e si esprimano correttamente, perché frequentando barbari o persone di cattivi costumi non finiscano contagiati dalla loro meschinità. Calza a proposito quello che dicono gli amanti dei proverbi: «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare».

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Quando poi avranno l'età di essere sottoposti ai pedagoghi, si dovrà procedere con molta attenzione alla loro scelta, per evitare che i genitori, inavvertitamente, affidino i figli a schiavi barbari o buoni a nulla. Molta gente oggi si comporta in modo davvero ridicolo: gli schiavi di valore li impiegano come agricoltori, nocchieri, mercanti, amministratori o usurai, ma se incappano in un servo ubriacone ed ingordo, inutilizzabile per qualunque altra mansione, è proprio a costui che portano e sottopongono i figli. Il perfetto pedagogo, invece, deve possedere doti paragonabili a quelle di Fenice, il pedagogo di Achille. Passo ora a trattare il punto più importante ed essenziale tra quelli menzionati finora: per i figli si devono cercare maestri inappuntabili per condotta di vita, irreprensibili sotto il profilo morale ed eccellenti sul piano dell'esperienza, perché una formazione corretta è fonte e radice di perfezione morale. Come gli agricoltori sostengono le piante con dei paletti, così i bravi maestri puntellano i giovani con idonei precetti e consigli, perché il loro carattere germogli diritto. Oggi, invece, sarebbero da esecrare certi padri, che prima ancora di esaminare i requisiti dei futuri maestri, per ignoranza o talora anche per inesperienza, mettono i loro ragazzi nelle mani di persone indegne e di bassa lega. E se è l'inesperienza a farli agire così, ancora non si può parlare di ridicolo, ma in un altro caso essi raggiungono il colmo dell'assurdità. Quale? Talvolta, pur essendo a conoscenza, direttamente o per sentito dire, dell'incompetenza e dell'indegnità di certi precettori, non esitano lo stesso ad affidare loro i propri ragazzi, ora cedendo alle adulazioni di chi li blandisce per avere il posto, ora invece per compiacere le richieste di un amico; e così finiscono per comportarsi come un malato che rinunciasse a farsi curare da chi ha la competenza per guarirlo e solo per far piacere a un amico gliene preferisse un altro che con la sua incompetenza lo farà morire, o come un armatore che si lasciasse vincere dalle istanze di un amico e scartando il comandante migliore assumesse per la sua nave quello peggiore. Ma, per Zeus e tutti gli Dei!, chi ha nome di padre tiene in maggior conto il favore reso a un postulante o l'educazione dei propri figli? Non aveva dunque ragione il vecchio Socrate di ripetere spesso che se avesse potuto sarebbe salito sul punto più elevato della città e avrebbe detto a gran voce: «Uomini, dove mai vi affannate, voi che riponete ogni cura nell'ammassare ricchezze, ma tanto poco vi preoccupate dei figli a cui le lascerete in eredità?»? A queste parole io potrei aggiungere che simili padri si comportano pressappoco come uno che si preoccupasse delle scarpe ma si disinteressasse dei piedi. Molti padri, poi, arrivano a tali eccessi di grettezza e al tempo stesso di disamore nei riguardi dei figli che, pur di non pagare un onorario più alto, scelgono come maestri dei loro ragazzi persone di nessun valore, inseguendo un'ignoranza a buon mercato. Non priva di eleganza, e anzi assai fine, fu la battuta con cui Aristippo si prese gioco di un padre privo di cervello e di cuore. Un tale gli aveva chiesto che compenso volesse per educargli il figlio e sentendosi rispondere: «Mille dracme», «Per Eracle - era sbottato - che esagerazione! Con mille dracme posso comprarmi uno schiavo». «E allora - gli replicò Aristippo - di schiavi ne avrai due: tuo figlio e quello che ti sarai comprato!». Insomma, esiste cosa più assurda dell'abituare i bambini a prendere il cibo con la destra e di sgridarli se allungano la sinistra, e non preoccuparsi poi minimamente di far ascoltare loro «destri» e legittimi insegnamenti? Che succede poi a questi meravigliosi padri, una volta che abbiano male allevato e male educato i propri figli? Ve lo dirò io. Il tempo di essere registrati tra gli adulti e subito quelli se ne infischieranno di condurre una vita sana e ordinata e andranno a tuffarsi nei piaceri sregolati e servili. Allora, quando ormai non servirà più a nulla, quei padri si pentiranno di aver tradito l'educazione dei figli e si strazieranno nel vederne la mala condotta: c'è chi si circonda di adulatori e di parassiti, gente infima e detestabile, autentici sovvertitori e corruttori della gioventù; chi riscatta cortigiane e prostitute altezzose e di gran costo; chi dissipa una fortuna nelle crapule; chi va ad incagliarsi nel gioco dei dadi o nei bagordi, e chi infine mette mano ai vizi più dissoluti, come adultèri o baccanali, pagando con la morte un solo piacere. Se avessero frequentato invece la compagnia di un filosofo, forse non si sarebbero lasciati facilmente trascinare in comportamenti del genere e avrebbero perlomeno appreso la raccomandazione di Diogene, che con parole crude nella forma, ma veritiere nella sostanza, ammonisce dicendo: «Entra in un bordello, ragazzo mio, e imparerai che non c'è nessuna differenza fra le cose gratuite e quelle che costano molto denaro!».

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Riassumendo, io ribadisco (e probabilmente avrò l'aria di uno che dà oracoli più che consigli) che in questo campo il punto unico, primo, centrale e ultimo, è costituito da un'educazione seria e un'istruzione corretta, e sostengo che il concorso di questi due fattori è efficace per acquisire la virtù e la felicità. Gli altri non sono che beni umani, insignificanti e indegni di considerazione. La nobiltà è una bella cosa, ma è un bene proprio degli antenati; la ricchezza è preziosa, ma appartiene alla sorte, che spesso la toglie a chi ce l'ha e la dona a chi non lo sperava. Una grande fortuna è il bersaglio preferito di chi tende l'arco sui borsellini altrui, servi disonesti e delatori, e quel che è peggio, la possiedono anche gli uomini più scellerati. La gloria è meravigliosa, ma instabile; la bellezza ambita, ma caduca; la salute preziosa, ma fragile. La forza fisica è invidiabile, ma comoda preda della malattia e della vecchiaia, e in generale, se uno va orgoglioso della sua robustezza, si renda conto che l'idea è sbagliata: che rapporto può mai esserci tra la forza di un uomo e la potenza degli altri animali? Di un elefante, ad esempio, di un toro o di un leone? L'educazione è l'unico nostro bene immortale e divino. Nella natura umana due sono in assoluto gli elementi più importanti: intelletto e parola. L'intelletto è signore della parola e la parola è al servizio dell'intelletto: è inespugnabile dalla sorte, inattaccabile dalla calunnia, indenne dalla malattia, al riparo dai guasti della vecchiaia, perché solo l'intelletto invecchiando ringiovanisce e il tempo, che porta via ogni altra cosa, alla vecchiaia aggiunge invece la saggezza. La guerra, che come un torrente impetuoso tutto travolge e tutto trascina, solo l'educazione non riesce a predare. Memorabile mi sembra la risposta data dal filosofo Stilpone di Megara a Demetrio, che aveva preso e raso al suolo la sua città: quando chiese a Stilpone se avesse perduto qualcosa di suo: «No di certo! - si sentì rispondere - La guerra non depreda la virtù». In pieno accordo e sintonia con questa appare anche la replica di Socrate a Gorgia, che gli aveva domandato, se ben ricordo, che opinione avesse del Gran Re e se lo considerava felice: «Non ho idea - fu la sua risposta - di come stia quanto a virtù ed educazione», lasciando intendere che qui risiede la felicità e non nei beni di fortuna.

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Ma come consiglio di non considerare niente più importante dell'educazione dei figli, così pure ribadisco la necessità di attenersi a quella pura e sana, e di tenere i figli il più lontano possibile dal ricercare con manierati discorsi il pubblico consenso: piacere alle masse è dispiacere ai saggi! Anche Euripide conferma le mie parole quando dice:

Non ho grazia nel parlare a una folla,

tra pochi, e coetanei, sono più bravo.

Chi fra i saggi

non vale, più ispirato è per la folla.5

Per parte mia osservo che quanti si studiano di parlare mirando al consenso e alla simpatia delle masse triviali, anche nella vita diventano per lo più dissoluti e amanti dei piaceri. E non senza ragione, per Zeus! Se trascurano il bene per far cosa gradita agli altri, tanto meno sapranno anteporre rettitudine e sanità morale al piacere e alla soddisfazione personali e inseguire la saggezza al posto del diletto. Che altro si potrebbe raccomandare ai ragazzi... [breve lacuna nel testo]? È bene non dire né fare niente a caso e, come dice il proverbio, «il bello è difficile». I discorsi improvvisati sono pieni di molta sciatteria e superficialità, e tipici di chi non sa da dove cominciare né dove finire. Senza contare le altre stonature, è fatale che chi parla improvvisando cada in una tremenda dismisura e verbosità. La riflessione, invece, non consente al discorso di eccedere la giusta simmetria. Pericle, a quanto ci è dato sapere, pur invocato ripetutamente dal popolo, si rifiutò di prendere la parola, sostenendo di non essersi preparato. Lo stesso fece Demostene, che volle emulare la condotta politica di Pericle: gli Ateniesi ne invocavano il consiglio, ma lui ricusava dicendo: «Non sono preparato». Questa può essere forse una tradizione anonima e inventata, ma nell'orazione Contro Midia è lui stesso ad evidenziare chiaramente l'utilità della riflessione: «Ateniesi - dichiara - confesso di aver riflettuto e non potrei negare di essermi concentrato al massimo delle mie possibilità: sarei proprio un miserabile, se con quello che ho sofferto e che soffro, non mi fossi curato di ciò che vi dovevo dire». Con questo, però, non intendo sostenere la condanna assoluta dell'improvvisazione o proibirne l'impiego anche nei casi che la richiedono, ma piuttosto la necessità di adoperarla come si fa con una medicina. Fino all'età adulta ritengo che non si debba mai parlare improvvisando, ma una volta radicate le proprie capacità, allora è bene, se le circostanze lo esigono, godere di piena libertà nell'esprimersi. Perché uno rimasto a lungo in ceppi, anche se riacquista la libertà, per la lunga abitudine alle catene non riesce a camminare spedito ma zoppica, e così pure chi per molto tempo ha avuto sotto chiave la parola, anche se un giorno si trova a dover improvvisare un discorso, fatalmente conserva nel modo d'esprimersi lo stesso sigillo. Comunque, consentire ai ragazzi di parlare improvvisando diventa causa del peggiore vaniloquio. Si racconta che un pittore da strapazzo avesse mostrato un suo quadro ad Apelle, dicendogli: «Questo l'ho dipinto ora, in un momento», ma si ebbe come risposta: «Senza che tu lo dica, capisco da solo che è stato dipinto in fretta: mi meraviglio, piuttosto, che di quadri del genere tu non ne abbia dipinti più d'uno!». Come dunque (tornando all'assunto iniziale di questo discorso) sconsiglio il ricorso a uno stile teatrale e pseudotragico, così all'opposto raccomando di evitare e fuggire anche quello minuto e dimesso, perché se l'enfasi è politicamente inefficace, uno stile troppo scarno non fa colpo. Il fisico non dev'essere solo sano, ma anche robusto: così il discorso non dev'essere solo esente da difetti, ma anche vigoroso, perché la cautela suscita solo consensi, l'audacia anche ammirazione. Mi capita di pensare la stessa cosa anche riguardo alla disposizione d'animo: non si deve essere né sfrontati né al contrario pavidi o timidi, perché nel primo caso si degenera nell'impudenza, nell'altro nel servilismo; tenere sempre, in ogni campo, la via di mezzo è segno invece di buon gusto e di armonia. Ma desidero, finché ancora tratto di questo aspetto dell'educazione, esprimere la mia idea al riguardo: un discorso monocorde è anzitutto, a mio modo di vedere, un non trascurabile indizio di povertà culturale, e in secondo luogo, anche ai fini pratici, lo giudico noioso e assolutamente privo di incisività. La monotonia è sempre stucchevole e antipatica: la varietà, invece, è gradevole, come avviene anche in tutti gli altri campi, negli spettacoli musicali, ad esempio, o in quelli teatrali.

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Si deve dunque consentire a un ragazzo libero di ascoltare e conoscere anche tutte le altre discipline, che formano la cosiddetta educazione di base: queste, comunque, le dovrà apprendere di corsa, limitandosi, per così dire, a un assaggio (raggiungere la perfezione in ogni campo è impossibile), e assegnando invece un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un'immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. Argutamente anche il filosofo Bione osservava che come i pretendenti, non riuscendo ad entrare in intimità con Penelope, se la facevano con le sue ancelle, così pure chi non è in grado di raggiungere la filosofia inaridisce nello studio delle altre discipline, che al confronto non valgono nulla. Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell'intero processo educativo. Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigoria. Il solo rimedio alle malattie e alle passioni dell'anima è dato, invece, dalla filosofia. Per essa e con essa è possibile capire in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, quello che, in breve, si deve ricercare o evitare: come ci si debba comportare con gli Dei, con i genitori, con gli anziani, con le leggi, con le autorità, con i figli, con i servi, e cioè che bisogna venerare gli Dei, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi, sottostare alle autorità, amare gli amici, essere temperanti con le mogli, affettuosi con i figli, non troppo rigidi con i servi e, quel che più conta, non abbandonarsi ad eccessi di gioia nei momenti felici e non abbattersi troppo in quelli tristi, non essere sfrenati nei piaceri e passionali e bestiali negli stati d'ira. Tra tutti i beni elargiti dalla filosofia questi sono, a mio avviso, i più importanti, perché è da uomo comportarsi nobilmente nella buona fortuna, da persona controllata non suscitare invidie, da saggio vincere con i ragionamenti le lusinghe del piacere, da uomo non comune dominare l'ira. Perfetti sono, a mio giudizio, gli uomini capaci di coniugare l'abilità politica con la filosofia, perché secondo me riescono a centrare i due beni più grandi: una vita dedicata alla pubblica utilità nel fare politica e un'esistenza calma e serena nell'occuparsi di filosofia. Tre sono i modelli di vita possibili: l'attivo, lo speculativo e il gaudente. Quest'ultimo, che s'abbandona e si fa schiavo dei piaceri, è animalesco e meschino; quello attivo, se non è assistito dalla filosofia, è goffo e stonato; quello speculativo, se fallisce sul piano pratico, inutile. Si deve cercare dunque, con il massimo impegno, di occuparsi degli affari pubblici e dedicarsi alla filosofia per quanto le circostanze consentano. Cosi fecero politica Pericle, così Archita di Taranto, così, infine, Dione di Siracusa ed Epaminonda di Tebe, che furono entrambi in familiarità con Platones. E sulla formazione culturale non vedo la necessità di dilungarmi ulteriormente: alle affermazioni precedenti potrei solo aggiungere che è utile, o meglio essenziale, non sottovalutare neppure l'acquisto delle opere del passato e farne anzi provvista, alla maniera degli agricoltori... [brave lacuna nel testo]. Allo stesso modo la consultazione dei libri è uno strumento di educazione e consente di attingere il sapere direttamente alla fonte.

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D'altra parte non è giusto nemmeno trascurare l'attività fisica, ma si devono mandare i ragazzi dal maestro di ginnastica perché pratichino esercizi idonei al conseguimento di un corpo armonioso e robusto insieme: pietra fondamentale di una bella vecchiaia è la buona complessione acquisita nella fanciullezza. Quando il tempo è bello si devono predisporre le difese contro quello cattivo: così nella giovinezza conviene mettere in serbo la disciplina e la temperanza come viatico per la vecchiaia. Lo sforzo fisico, però, deve essere regolato in modo che i ragazzi non ne escano stremati e non siano più in grado di sostenere l'impegno richiesto dallo studio. Sonno e stanchezza sono per Platone nemici dell'apprendimento. Perché dico questo? Perché sono ansioso di toccare il punto più importante di tutto questo discorso: bisogna addestrare i ragazzi in vista delle fatiche militari, allenandoli nel lancio dei giavellotti, nel tiro con l'arco e nella caccia, perché in battaglia «i beni dei vinti sono premi offerti ai vincitori». In guerra non c'è posto per un fisico allevato nell'ombra e un soldato smilzo, ma avvezzo alle fatiche militari, travolge falangi di atleti inadatti alla guerra. 

«Ma come? - mi si potrebbe obiettare - Hai promesso di dare precetti sull'educazione dei ragazzi liberi, ma poi trascuri in modo palese quella dei poveri e dei popolani, e sei d'accordo nell'indirizzare i tuoi consigli solo ai ricchi?». A un simile rilievo non è difficile rispondere: vorrei tanto che questa educazione fosse utile a tutti, indistintamente, ma se qualcuno non dispone di risorse adeguate e non potrà avvalersi dei miei precetti, incolpi la sorte e non chi dà questi consigli. Cerchino anche i poveri, con tutte le loro forze, di assicurare ai propri ragazzi l'educazione migliore, o perlomeno quella che è alla loro portata. Ho aggiunto questo inciso al carico del discorso, per potermi riallacciare di seguito agli altri fattori che contribuiscono alla corretta educazione dei giovani.

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Sostengo anche questo, che bisogna guidare i ragazzi a comportarsi bene ricorrendo a consigli e parole, e non, per Zeus!, a percosse o maltrattamenti. Questi metodi sembrano forse più adatti a schiavi che a uomini liberi, perché inducono torpore e raccapriccio di fronte alle fatiche, in parte per il dolore delle percosse, in parte anche per l'umiliazione che ne deriva. Elogi e rimproveri sono più utili, per i giovani di condizione libera, di qualsiasi maltrattamento, perché i primi spronano al bene, i secondi distolgono dal male. Bisogna saper alternare e variare punizioni ed elogi: punirli e svergognarli in caso di errore, ma poi riconfortarli con gli elogi, imitando le nutrici, che prima lasciano frignare i piccoli e poi li consolano porgendo loro il seno. Ma non si deve neppure esaltarli e gonfiarli a forza di encomi, perché se si eccede nelle lodi diventano fatui e si adagiano.

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Ho già visto alcuni padri per i quali il troppo amore divenne causa di disamore. Che intendo dire, tanto per rendere più chiaro il mio discorso con un esempio? Smaniando dalla voglia di veder primeggiare più in fretta i loro ragazzi in ogni campo, li caricano di fatiche sproporzionate, col risultato che non riescono a reggerle e finiscono per crollare, e in ogni caso, oppressi dai patimenti, non accolgono docilmente l'insegnamento. Le piante si sviluppano con la giusta quantità d'acqua, ma se si esagera soffocano: così anche la mente «con giuste fatiche s'accresce, ma da quelle eccessive finisce sommersa». Bisogna dare dunque ai ragazzi la possibilità di riprender fiato dalle continue fatiche, riflettendo come tutta la nostra vita sia divisa fra riposo ed impegno. Per questo furono inventate non solo la veglia ma anche il sonno, e così la guerra e la pace, il tempo brutto e quello bello, le attività lavorative e le feste. Per dirla in breve, il riposo è il condimento delle fatiche. Si può constatare come questo non riguardi solo gli esseri viventi, ma anche le cose inanimate, visto che allentiamo archi e lire per poterli poi tendere di nuovo. In generale, il corpo è preservato dal senso di vuoto e di pieno, la mente dal riposo e dalla fatica.

È giusto biasimare certi padri, che affidano i figli a pedagoghi e maestri ma poi non si premurano affatto di osservare o di ascoltare di persona come li istruiscono, venendo così meno in modo gravissimo ai propri doveri. Dovrebbero invece controllare periodicamente i loro ragazzi, a pochi giorni di distanza, evitando di riporre le proprie speranze nella disposizione d'animo di un salariato; gli stessi maestri, poi, si prenderanno più cura degli allievi, se saranno chiamati di volta in volta a renderne conto. Arguto, al riguardo, è il detto dello staffiere: «Niente ingrassa il cavallo quanto l'occhio del re». Più di ogni altra cosa, poi, si deve allenare la memoria dei ragazzi e irrobustirla con l'abitudine, perché essa è, per così dire, il magazzino del sapere. Per questo si favoleggiò che madre delle Muse fosse Mnemòsine, lasciando allusivamente intendere che nulla genera e nutre quanto la memoria. Essa va esercitata sempre, con i ragazzi che ne siano naturalmente ben dotati, e con quelli, al contrario, che ne abbiano poca, perché nel primo caso rafforzeremo la ricchezza delle doti naturali, nel secondo ne colmeremo le carenze: così i primi saranno migliori de gli altri, i secondi di se stessi. Bene ha detto Esiodo:

Se anche poco volessi tu aggiungere al poco, 

e lo facessi spesso, in fretta potrebbe esser molto.6

Nemmeno questo concetto sfugga dunque ai padri, e cioè che l'aspetto mnemonico dello studio svolge un ruolo non certo secondario non solo in vista dell'educazione, ma anche della condotta di vita, perché il ricordo delle azioni passate diventa modello di saggezza per quelle future.

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Bisogna inoltre tenere lontani i figli dal turpiloquio, perché, come dice Democrito, «la parola è l'ombra dell'azione». Si deve poi fare in modo che siano affabili e socievoli, perché i caratteri arroganti sono giustamente malvisti: così i ragazzi potrebbero evitare l'odio dei compagni, se nel discutere non si mostreranno assolutamente irremovibili; non solo vincere è bello, lo è anche saper accettare una sconfitta, quando la vittoria può risultare dannosa. Esiste in effetti anche la «vittoria cadmea», e in proposito mi è testimone il saggio Euripide, che dice:

Fra due che parlano, se uno s'adira, 

più saggio è colui che non ribatte.7

Dobbiamo ora parlare di altri precetti, che i giovani devono seguire non meno di quelli enunciati finora, e anzi di più: praticare un sobrio tenore di vita, frenare la lingua, dominare l'ira, tenere controllate le mani. Si osservi l'importanza di ciascuno: la si comprenderà meglio con qualche esempio. Per cominciare dall'ultimo, dirò che alcuni, per aver posto le mani su guadagni illeciti, buttarono via la vita vissuta sino a quel momento: come lo spartano Gilippo, che per aver aperto di nascosto i sacchetti pieni di denaro, fu bandito e scacciato da Sparta. Il controllo dell'ira, a sua volta, è proprio di un uomo saggio. Socrate era stato preso a calci da un ragazzotto inso lente e laido; vedendo che le persone intorno a lui erano indignate e fremevano dalla voglia di dargli addosso: «E se a scalciarmi fosse stato un asino - esclamò - avreste ritenuto giusto ricambiarne i calci?». Quel tale, comunque, non se la passò affatto liscia: sentendosi schernire da tutti e apostrofare col nomignolo di «tiracalci», finì per impiccarsi. Quando Aristofane, rappresentando le Nuvole, lo copriva di insolenze di ogni tipo, uno spettatore gli chiese: «Ma tu, Socrate, non ti sdegni di essere svillaneggiato a questo modo?». «No di certo, per Zeus! - fu la sua risposta - Si scherza su di me a teatro come si farebbe in un gran convito». Affini e degne di far coppia con queste appariranno le reazioni di Archita di Taranto e di Platone. Il primo, di ritorno da una guerra (ricopriva in quel momento l'incarico di stratego), trovò incolti i suoi campi; chiamato il fattore: «Urleresti di dolore - gli disse - se io non fossi troppo in collera». Platone, adiratosi con uno schiavo ingordo e laido, mandò a chiamare Speusippo, il figlio di sua sorella, e: «Pensa tu a battere costui! - gli disse allontanandosi - Io sono troppo arrabbiato». Mi si potrebbe obiettare che questi sono comportamenti difficili e duri da imitare. Lo so anch'io, ma per quanto è possibile bisogna almeno tentare di servirci di simili esempi e sottrarre quanto più è possibile a una collera sfrenata e furiosa: in nessun campo, d'altra parte, possiamo contendere con la bravura e la perfezione morale di quei grandi! Ciò nonostante, quasi fossimo sacri interpreti della loro divinità e portafiaccole della loro sapienza, dobbiamo sforzarci, per quanto sta in noi, di imitarne i comportamenti e carpirne qualcosa. Quanto poi al tenere a freno la lingua (che, in base al mio proponimento, è l'ultimo punto che mi rimane da trattare), se si pensa che abbia scarso rilievo e importanza, si è molto lontani dal vero: un tempestivo silenzio è cosa saggia e vale più di qualunque discorso! Per questo, mi sembra, gli antichi istituirono i riti di iniziazione, perché abituati in quei frangenti a mantenere il silenzio, potessimo poi trasferire il timore suscitato dagli Dei alla fedeltà nel custodire i segreti degli uomini. Di fatto, nessuno s'è mai pentito di aver taciuto; moltissimi, invece, di aver parlato. È facile dire ciò che si è taciuto, ma riafferrare quel che si è detto è impossibile. So per sentito dire che un'infinità di persone è piombata nelle più gravi sventure per non aver saputo tenere a freno la lingua. Tralasciando gli altri, mi limiterò a menzionare uno o due casi, a mo' di esempio. Quando il Filadelfo sposò la sorella Arsìnoe, Sotade gli disse:

Tu spingi il pungolo in un foro proibito.

Così marcì molti anni in prigione, pagando il non biasimevole fio di un parlare inopportuno, e per far ridere gli altri finì lui per piangere a lungo. Cose comparabili e analoghe a queste ebbe a dire e a subire anche il sofista Teocrito, e anzi ben più tremende. Alessandro aveva ordinato ai Greci di preparare vesti di porpora, per offrire al suo ritorno sacrifici di ringraziamento per la vittoria riportata nella guerra contro i barbari: i singoli popoli stavano versando i loro contributi in denaro, quando Teocrito esclamò: «Prima ero incerto, ma ora comprendo bene che è questa la "morte purpurea" di Omero». Cosi dicendo si attirò l'inimicizia di Alessandro. Un'altra volta suscitò una collera smisurata nel re macedone Antigono, che aveva un occhio solo, rinfacciandogli la sua menomazione: questi gli aveva inviato il suo capocuoco, Eutropione, pretendendo che, per la sua militanza nell'esercito, gli si presentasse per fare rapporto e ricevere istruzioni. Eutropione si recò più volte da lui, ma tentò invano di riferirgli il messaggio. Alla fine si ebbe come risposta: «So bene che vuoi servirmi crudo in tavola al Ciclope», battuta con cui rinfacciava all'uno di essere guercio e all'altro di essere cuoco. Eutropione allora gli replicò: «Non salverai la testa, ma pagherai il fio di questa tua folle linguaccia!», e riferì ogni cosa al re, che inviò dei sicari e fece assassinare Teocrito. In aggiunta a tutte queste raccomandazioni, il dovere più sacro è abituare i ragazzi a dire la verità, perché mentire è vizio da schiavi, che merita l'odio di tutti gli uomini e non si può perdonare neppure ai servi misurati.

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Fin qui non ho avuto né dubbi né tentennamenti nell'esporre queste considerazioni sulla condotta e la moralità dei ragazzi, ma sul tema che mi accingo ad affrontare ora sono perplesso e diviso tra due opinioni, e inclinando ora da una parte ora dall'altra come sul piatto di una bilancia, non riesco a piegare verso nessuna delle due e sono molto dubbioso sull'opportunità di introdurre un simile argomento o lasciarlo cadere. Pur tuttavia devo trovare il coraggio di parlarne. Di che si tratta? Se si debba permettere agli amanti dei ragazzi di frequentarli e stare con loro, o se non sia meglio, al contrario, impedirlo e tenerli lontani dalla loro compagnia. Quando penso a quei padri tutti d'un pezzo, arcigni e austeri, che ritengono la compagnia degli amanti un oltraggio intollerabile per i loro figlioli, mi guardo bene dal farmene promotore e consigliere. Quando invece penso a Socrate, Platone, Senofonte, Eschine, Cebete e a tutta la schiera di coloro che approvarono gli amori maschili e furono per gli adolescenti guida intellettuale, politica e morale, allora divento un altro e propendo per l'imitazione di quei grandi uomini. Testimonia in loro favore Euripide, quando dice:

Ma esiste tra i mortali un altro amore, 

dell'anima giusta, temperante e buona.8

Non si deve trascurare neppure la frase di Platone, mista a un tempo di serietà e facezia, secondo cui dev'essere concesso a quanti hanno dato prova di valore di scegliere fra i bei ragazzi quelli che vogliono amare. Si dovrebbe dunque respingere chi è attratto dal fiore della giovinezza, mentre sono da ammettere senza riserve quelli che sono innamorati dell'anima: gli amori praticati a Tebe e nell'Elide, e il cosiddetto ratto di Creta, sono da evitare; quelli in uso ad Atene e a Sparta, invece, da emulare.

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In questo campo, dunque, ciascuno si regoli secondo le proprie convinzioni. Quanto a me, dato che finora ho parlato della disciplina e della compostezza dei ragazzi, passerò adesso a trattare anche dell'età adolescenziale, facendo una brevissima premessa. In più occasioni ho avuto modo di biasimare i responsabili dell'introduzione di cattive abitudini, quelli cioè che sottopongono i bambini al controllo di pedagoghi e maestri ma poi lasciano pascolare liberamente l'impulsività degli adolescenti, mentre al contrario è con questi ultimi, più che con i bambini, che c'è bisogno di cautela e vigilanza. Chi non sa che le mancanze dei bambini sono lievi e perfettamente sanabili, e si riducono probabilmente a noncuranza verso il pedagogo o a qualche sotterfugio e disobbedienza nei riguardi del maestro, mentre le colpe della prima giovinezza sono spesso aberranti e funeste: eccessi di gola, furti di denaro paterno, dadi, gozzoviglie, sbornie, amoreggiamenti con fanciulle e seduzione di donne sposate? Non c'è dubbio che l'impulsività di costoro debba essere imbrigliata e tenuta sotto stretto controllo. L'età in fiore è sregolata nei piaceri, scalpitante e bisognosa di freno, tanto che, se non la si blocca con decisione, si finisce inavvertitamente per consentire alla sua sventatezza di degenerare in comportamenti ingiusti. Un padre coscienzioso deve dunque stare in guardia e vigilare soprattutto in questa fase delicata, ed indirizzare gli adolescenti alla temperanza ricorrendo ad insegnamenti, minacce, preghiere, consigli, promesse, ed additando l'esempio di quanti per amore dei piaceri finirono male o seppero al contrario procurarsi elogi e buona reputazione grazie al loro autocontrollo. Due sono, per così dire, le vie maestre della virtù: speranza d'onore e timore di punizioni. La prima rende i giovani più ardenti verso i comportamenti più belli, la seconda li fa più esitanti verso le azioni cattive.

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In generale, poi, è opportuno tenere lontano i ragazzi dal frequentare i cattivi soggetti, perché dai loro vizi riportano sempre qualcosa. La stessa raccomandazione faceva anche Pitagora, servendosi di espressioni enigmatiche, che io voglio ora citare e spiegare, dato che anch'esse influiscono non poco sull'acquisizione della virtù. Ad esempio: «Non gustare melanuri», cioè non intrattenersi con persone «nere» di malvagità; «Non far tracollare la bilancia», che indica la necessi tà di tenere in grandissimo conto la giustizia e non trasgredirla; «Non sedere sulla chènice», cioè fuggire l'ozio e provvedere a procurarci il sostentamento quotidiano; «Non porgere a chiunque la destra», invece di dire: «Nel fare accordi ci vuole cautela»; «Non portare un anello stretto», e cioè la vita va vissuta in libertà e senza contrarre legami; «Non attizzare il fuoco col ferro», invece di dire: «Non irritare chi è adirato», perché non sarebbe conveniente, ma è meglio assecondare chi è in preda all'ira; «Non mangiare il cuore», ossia non far male all'anima logorandola di ansie; «Astenersi dalle fave», cioè non bisogna darsi alla politica, perché anticamente era con le fave che si facevano le votazioni con cui si poneva fine alle magistrature; «Non mettere il cibo nell'orinale»: significa che non si dovrebbe riporre un discorso valido in un'anima malvagia, perché la parola è nutrimento del pensiero, ma la malvagità degli uomini la rende impura; «Giunto ai confini non volgerti indietro», cioè quando si è in punto di morte e si vede ormai vicino il termine della vita, accettare di buon grado e non smarrirsi d'animo.

Tornerò ora all'assunto iniziale del discorso. Come dicevo, bisogna tenere lontani i ragazzi da tutti i cattivi soggetti, ma in particolar modo dagli adulatori. Vorrei dire anche qui quello che continuo a ripetere in diverse occasioni e parlando con molti padri: non esiste genia più esiziale, o più efficace e rapida nel rompere il collo alla gioventù, degli adulatori, che annientano dalla radice padri e figli, e rendono penosa agli uni la vecchiaia, agli altri la giovinezza, agitando davanti ai loro consigli l'esca irresistibile del piacere. Ai giovani ricchi i padri raccomandano la sobrietà, gli adulatori l'ubriachezza; la temperanza, loro invece la lascivia; il risparmio, loro lo sperpero; la laboriosità, loro invece l'ozio. E aggiungono: «Un istante è la vita: vivere bisogna, non vegetare! Che t'importa delle minacce di tuo padre? Non è che un vecchio rimbambito, uno spettro che cammina: presto lo caricheremo sulle spalle e lo porteremo alla tomba». Un altro gli procura una prostituta o seduce per lui una donna sposata e così saccheggia e devasta le sostanze che i padri hanno messo da parte per la vecchiaia. Razza maledetta! Commedianti dell'amicizia! Ignorano il gusto della sincerità; adulano i ricchi e spregiano i poveri; sono attratti dai giovani come dal suono della lira; sogghignano quando chi li mantiene ride di cuore, impostori e bastardi dell'umano consorzio! Vivono al cenno dei ricchi: per sorte nati liberi, per scelta propria schiavi! Quando non sono insultati, è proprio allora che hanno la sensazione di esserlo, perché si sentono mantenuti inutilmente. Se a un padre sta a cuore la buona educazione dei figli, provveda dunque a scacciare questi esseri immondi, e faccia lo stesso anche con i cattivi compagni di scuola, che sanno corrompere perfino le nature più nobili.

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Queste riflessioni, dunque, si ispirano al bene e all'utile, queste altre, che sto per esporre, al senso d'umanità. Io non ritengo opportuno che i padri siano eccessi vamente rigidi e intransigenti, ma al contrario penso che in più d'una occasione debbano essere disposti a perdonare i falli più leggeri, ricordando che sono stati giovani anche loro. Temprando con succhi dolci le medicine amare, i medici hanno fatto di ciò che è piacevole una via d'accesso all'utile: così i padri devono attenuare l'asprezza dei rimproveri con la dolcezza e ora distendere e allentare la briglie ai desideri dei figli e ora invece tirarle, e soprattutto sopportarne gli errori senza perdere il buonumore, e se non ci riescono, dopo lo scatto d'ira, disinfiammarsi in fretta. Un padre deve dare immediato sfogo alla collera piuttosto che covarla a lungo dentro di sé, perché un atteggiamento rancoroso e mal disposto alla conciliazione è indizio non lieve di mancanza d'amore verso i figli. È bene anche, nei riguardi di talune loro mancanze, far finta di non esserne neppure a conoscenza, e trasferire su quegli episodi la debolezza di vista e di udito tipica della vecchiaia, sì da non vedere pur vedendo e da non sentire pur sentendo certe loro bravate. Tolleriamo le mancanze degli amici: che c'è di strano se facciamo lo stesso con i figli? In più occasioni abbiamo evitato di rimproverare l'ubriachezza a schiavi intontiti dal vino. Una volta sei stato stretto? Ora largheggia! Un'altra volta ti sei arrabbiato? Ora perdona! È ricorso a un servo per ingannarti? Frena la collera! Ti ha sottratto dalla campagna una coppia di animali o è ritornato coll'alito che ri sentiva della sbornia del giorno prima? Fa' finta di niente! È tutto un profumo? Non dire niente! Così si doma la gioventù, quando scalpita come un puledro.

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Quelli poi che non sanno resistere ai piaceri e sono sordi ai rimproveri bisogna cercare di sottoporli al giogo del matrimonio, perché questo è per la giovinezza il vincolo più sicuro. Occorre però garantire ai figli spose non molto più nobili o più ricche di loro. Saggio è il detto: «Prendi quella che fa per te», perché chi sposa una donna di condizione molto superiore alla sua, più che marito della moglie finisce, senza accorgersene, per diventare schiavo della dote.

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Qualche breve osservazione ancora e concluderò i miei suggerimenti. Prima di ogni altra cosa è indispensabile che i padri, comportandosi in modo irreprensibile e adempiendo a tutti i loro doveri, si offrano ai figli come un luminoso esempio, perché guardando alla loro vita come in uno specchio essi rinuncino ad agire e parlare in modo vergognoso. Quei genitori che rimproverano ai figli le medesime colpe in cui cadono anche loro, finiscono inconsapevolmente per accusare se stessi sotto il nome dei figli. Insomma, se conducono una vita riprovevole non hanno la libertà di riprendere nemmeno gli schiavi, figuriamoci i figli! Comunque, prescindendo da questo, tali genitori diventerebbero per loro consiglieri e maestri di fare il male. Dove i vecchi sono impudenti, è inevitabile che anche i giovani siano privi di ogni ritegno. Per una corretta educazione dei figli si devono dunque impiegare tutti i mezzi opportuni, prendendo a modello Euridice che, pur essendo illirica e tre volte barbara, si mise a studiare in età avanzata per seguire i figli nello studio. E l'amore che portò loro è ben espresso dall'epigramma da lei dedicato alle Muse:

Euridice di Irra consacrò questa offerta alle Muse, 

colto nell'anima il desiderio di sapere. 

Già madre di figli fiorenti, si sforzò d'imparare 

le lettere, che serbano delle parole il ricordo.9

Concludendo, riuscire a far proprie tutte le raccomandazioni qui esposte è forse solo una speranza, ma aspirare a concretarne la maggior parte, anche se richiede fortuna e grande impegno, è pur sempre una meta raggiungibile per chi ha natura di uomo.

Traduzione di Giuliano Pisani

 

 

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(1) Non manca chi considera spuria questa celebre operetta, come altre dei Moralia.

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(2) Euripide, Eracle 1261-1262.

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(3) Euripide, Ippolito 424-425.

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(4) Focilide, fr. 15 Teubner.

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(5) Euripide, Ippolito 986-989.

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(6) Esiodo, Opere 361-362.

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(7) Euripide, Prot., TGF, 654, p. 565.

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(8) Euripide, Thes., TGF, 388, vv. 1-2, p. 479.

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(9) Conosciamo l'epigramma attraverso l'Antologia Planudea. Non si sa chi sia questa Euridice, da taluni identificata con la sposa di Aminta III di Macedonia (che però non era di origine illirica), da altri - non si vede con quale plausibilità - con la prima moglie di Filippo II di Macedonia (in tal caso però pessima moglie e madre ancor peggiore, perché fece assassinare i suoi due figli).

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