Vita di Commodo

di

Elio Lampridio

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Dei parenti di Commodo Antonino si è già detto a sufficienza nel corso della vita di Marco Antonino (= Marc'Aurelio). Quanto a lui, nacque insieme col fratello gemello Antonino il 31 agosto dell'anno in cui erano consoli suo padre e suo zio paterno (= 161 d.C.), a Lanuvio, dove si dice sia nato anche il nonno materno. Faustina, mentre era gravida di Commodo e di suo fratello, sognò di partorire dei serpenti, tra i quali però uno era particolarmente feroce. Dopo che poi ebbe dato alla luce Commodo e Antonino, quest'ultimo, che pure gli astrologi predicevano avere, secondo il corso degli astri, lo stesso destino di Commodo, a soli quattro anni morì.

Morto dunque il fratello, Marco cercò di educare Commodo sia istruendolo personalmente sia affidandolo a valenti e insigni maestri. Quali insegnanti di lingua ebbe nel greco Onesicrate, nel latino Antistio Capella; maestro di retorica gli fu Ateio Santo. Ma tanti maestri di scienza non riuscirono a fargli fare alcun progresso. Tanto può sia il forte influsso dell'indole, sia di coloro che sono tenuti a Palazzo quali istitutori. Infatti sin dalla prima fanciullezza fu corrotto, disonesto, crudele, libidinoso, e pervertito e violentato persino in rapporti orali, e cultore soltanto di quelle arti che non si addicevano alla dignità di un imperatore, come fare il coppiere, ballare, cantare, zufolare, e financo esibirsi come perfetto buffone e gladiatore.

Giunto al dodicesimo anno d'età, a Centocelle, ebbe a manifestare un anticipo di quella che sarebbe stata la sua crudeltà; infatti, avendo trovato l'acqua del bagno troppo tiepida, ordinò di gettare nella fornace l'addetto ai bagni; ma quella volta il pedagogo, che aveva ricevuto personalmente l'ordine di fare ciò, fece bruciare nella fornace una pelle di castrato per fargli credere, dal fetore del fumo, che la punizione era stata eseguita. Ancora fanciullo ricevette il titolo di Cesare assieme al fratello Vero. A quattordici anni fu ammesso a far parte di un collegio sacerdotale.

2

Quando indossò la toga, fu assunto fra i ... [lacuna nel testo] quale «principe della gioventù». Aveva ancora la pretesta propria dei fanciulli quando elargì un donativo, presiedendo egli stesso alla distribuzione nella basilica di Traiano. Indossò la toga il 7 luglio, anniversario della assunzione all'Olimpo di Romolo, nello stesso anno della ribellione di Cassio contro Marco (= 175 d.C.). Accompagnato dal favore dei soldati, partì assieme al padre alla volta della Siria e dell'Egitto, e con lui ritornò a Roma. Dopo di ciò, ottenuta la dispensa dalla legge sui limiti d'età, fu creato console, e il novembre dell'anno corrispondente al consolato di Pollione e Apro (= 176 d.C.) fu acclamato imperatore insieme al padre, e condivise con lui il trionfo: anche questo infatti era stato decretato dal senato. Partì poi, sempre seguendo il padre, per la guerra germanica.

Non poteva sopportare, fra coloro che erano stati assunti per vigilare sulla sua vita, le persone che si distinguevano per la loro integrità, mentre si teneva cari tutti i peggiori soggetti, e quando gli furono tolti, ne soffrì la mancanza sino ad ammalarsi. E quando per la condiscendenza del padre poté riaverli, creò in permanenza nel Palazzo imperiale bettole e taverne, né mai si fece scrupoli di pudore o di spesa. Giocava a dadi nel Palazzo. Raccolse donnine di particolare avvenenza come schiave prostitute, creando un vero e proprio lupanare, un oltraggio alla pudicizia. Imitò i rivenditori del foro. Si procurò cavalli da corsa. Guidò i carri vestito da auriga, visse assieme ai gladiatori, fece il coppiere come un servo dei lenoni, sì che si sarebbe potuto crederlo nato piuttosto per una vita infamante, che non per la posizione alla quale la sorte lo aveva elevato.

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Licenziò i funzionari più anziani di suo padre, allontanò i suoi vecchi amici. Cercò di attrarre a una vita dissoluta il figlio del generale Salvio Giuliano, ma senza successo: per vendicarsi tramò insidie contro Giuliano. Tutte le persone più oneste le allontanò o coprendole direttamente di insulti infamanti, o degradandole ad uffici del tutto indegni di loro. Certi commedianti avevano fatto allusione alle sue perversioni sessuali: egli li fece subito deportare così che non si vedessero più in scena. Abbandonò poi la guerra che il padre aveva quasi condotto a conclusione, accettando passivamente le condizioni imposte dal nemico, e fece ritorno a Roma . Là giunto, celebrò il trionfo facendo prendere posto dietro di sé sul carro al suo partner di perversione Saotero, e più volte si rigirava a baciarlo alla vista di tutti. La stessa cosa faceva anche sui banchi del teatro. E se fino a giorno fatto si ubriacava e gozzovigliava dissanguando le risorse dell'impero romano, anche durante la sera vagava tra le bettole recandosi nei postriboli. Mandava a governare le province individui che o erano gli stessi complici dei suoi vizi o gli erano stati raccomandati da delinquenti. Venne talmente in odio al senato, che a sua volta divenuto, sentendosi disprezzato, crudele, finì per infierire senza pietà contro quell'illustre ordine.

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Le scelleratezze della vita di Commodo spinsero Quadrato e Lucilla a ordire una congiura per ucciderlo, non senza la complicità del prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno. L'incarico di eseguire l'attentato venne afàdato ad un parente, Claudio Pompeiano. Questi, entrato alla presenza di Commodo col pugnale sguainato e avendo l'occasione buona per agire, se ne venne fuori con queste parole: «Il senato ti manda questo pugnale», svelando così stupidamente il complotto e fallendo l'attuazione della congiura, nella quale erano implicate, oltre a lui, molte persone. Dopo di ciò furono messi a morte prima Pompeiano e Quadrato, poi Norbana e Norbano, nonché Paralio; la madre di questo e Lucilla vennero mandate in esilio. Allora i prefetti del pretorio, visto che Commodo era venuto tanto in odio al popolo romano a motivo di Saotero, il cui strapotere esso non poteva sopportare, condussero con le buone maniere lo stesso Saotero fuori del Palazzo con la scusa di un rito sacro, e, mentre ritornava nei suoi giardini, lo fecero uccidere dai loro sicari. Commodo ne soffrì più profondamente che per quanto era toccato a lui. Per istigazione di Tigidio destituì dalla carica di prefetto col pretesto di farlo senatore Paterno, autore di questo assassinio e, a quanto pareva, complice dell'attentato ordito contro di lui, che aveva anche interceduto per limitare i provvedimenti punitivi nei confronti dei congiurati. Dopo pochi giorni lo accusò di complotto dicendo che la figlia di Paterno era stata promessa al figlio di Giuliano allo scopo di trasferire il potere a Giuliano stesso. Perciò fece uccidere Paterno, Giuliano e Vitruvio Secondo, un amico strettissimo di Paterno, che era stato segretario della corrispondenza imperiale. Inoltre fu sterminata l'intera famiglia dei Quintili, perché si diceva che Sesto, figlio di Condiano, era riuscito a salvarsi mettendo in giro la notizia della sua morte, onde poter preparare una rivolta. Furono messi a morte anche Vitrasia Faustina, Velio Rufo e l'ex console Egnazio Capitone. I consoli Emilio Funco e Atilio Severo furono invece mandati in esilio. La repressione infierì in vario modo contro molte altre persone.

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Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch'essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l'avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell'arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall'ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c'era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi. In quel periodo venne anche ucciso, apparentemente in un'aggressione di briganti, quel Claudio il cui figlio una volta era entrato alla presenza di Commodo armato di pugnale, e furono uccisi senza processo molti altri senatori, e anche donne di ricca famiglia. E numerose persone che abitavano nelle varie province furono messe sotto accusa da Perenne a motivo delle loro ricchezze, e spogliate dei loro beni quando non anche uccise. Quelli poi contro i quali non era possibile l'imputazione di un'accusa inventata, venivano incriminati per non aver voluto nominare Commodo loro erede.

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Nel frattempo Perenne attribuiva al proprio figlio i successi riportati in Sarmazia da altri generali. Tuttavia questo Perenne, che pure era tanto potente, all'improvviso, poiché nella guerra contro i Britanni aveva affidato il comando dell'esercito a uomini dell'ordine equestre togliendolo ai senatori, non appena la cosa fu riferita dai legati militari, venne dichiarato nemico pubblico e consegnato ai soldati perché lo facessero a pezzi. A sostituirlo in quel ruolo di preminenza Commodo chiamò uno dei suoi ciambellani, Cleandro. Dopo l'uccisione di Perenne e di suo figlio, abrogò molti provvedimenti, come se fossero stati disposti a sua insaputa, dandosi l'aria di ristabilire l'antico ordine di cose. Ma non riuscì a conservare per più di trenta giorni questa resipiscenza delle sue malefatte, operando, attraverso Cleandro, in modo ancor peggiore di quanto non aveva fatto tramite il suddetto Perenne. E come Cleandro era successo a Perenne nella sua posizione di influenza, così nella prefettura del pretorio lo sostituì Nigro, che si narra sia rimasto in carica solo per sei ore; infatti i prefetti del pretorio venivano cambiati di giorno in giorno e di ora in ora, mentre Commodo si comportava in tutto peggio di quanto non avesse fatto in precedenza; così Marcio Quarto fu prefetto del pretorio per cinque giorni. I successori dei suddetti furono mantenuti in carica o uccisi ad arbitrio di Cleandro; a sua discrezione persino dei liberti venivano ammessi al rango senatorio o patrizio, e allora per la prima volta si ebbero venticinque consoli in un solo anno e il governo di tutte province fu offerto in vendita. Cleandro per denaro concedeva ogni cosa: faceva ritornare gli esiliati e conferiva loro cariche onorifiche, annullava i verdetti giudiziari. A tanto, per causa della stoltezza di Commodo, si estese il suo arbitrio, che poté accusare come sospetto di tramare un'usurpazione e mettere a morte Burro, cognato di Commodo, che lo rimproverava e riferiva a Commodo quanto accadeva, uccidendo parimente molti altri, che avevano preso le difese di Burro. Tra essi fu ucciso anche il prefetto Ebuziano, che venne sostituito nella carica dallo stesso Cleandro assieme ad altri due individui, sempre scelti da lui. Allora per la prima volta si ebbero tre prefetti del pretorio, fra i quali un liberto chiamato «il prefetto del pugnale».

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Ma anche Cleandro ebbe a subire una buona volta la fine che meritava. Infatti, dopo che, attraverso i suoi intrighi, era stato messo a morte sotto false accuse Arrio Antonino per compiacere Attalo, a cui quello, durante il suo proconsolato in Asia, aveva inflitto una condanna, e Commodo non fu più in grado di far fronte all'ondata d'odio scatenatasi nella popolazione infuriata, fu abbandonato al linciaggio della folla, mentre anche Apolausto e altri liberti di corte vennero egualmente trucidati. Cleandro, tra l'altro, aveva anche abusato delle concubine di Commodo, dalle quali aveva avuto dei figli, che dopo la sua morte furono uccisi assieme alle loro madri. Al suo posto subentrarono Giuliano e Regillo, essi pure da Commodo successivamente fatti morire. Eliminati questi, mise a morte Servilio e Dulio, della famiglia dei Silani, assieme ai loro congiunti, e poi Anzio Lupo, i Petronii Mamertino e Sura, il figlio di Mamertino Antonino, nato da una sua sorella, e, dopo questi, sei ex consoli in una sola volta, Allio Fusco, Celio Felice, Lucceio Torquato, Larcio Eurupiano, Valerio Bassiano e Pattumeio Magno insieme con i suoi parenti, mentre in Asia il proconsole Sulpicio Crasso, Giulio Proculo assieme ai suoi parenti, e l'ex console Claudio Lucano, e in Acaia la cugina di suo padre Annia Faustina, e innumerevoli altre persone. Aveva anche progettato di uccidere altre quattordici persone, giacché le rendite dell'impero romano non bastavano a coprire le sue spese.

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In questo frattempo Commodo ricevette dal senato, con atto di scherno, l'appellativo di Pio, per aver designato console l'amante della madre; quando uccise Perenne, ebbe quello di Felice, quale in certo senso - fra le innumerevoli stragi perpetrate contro tanti cittadini - un nuovo Silla. Sempre Commodo, lui il Pio, il Felice, si dice abbia persino simulato una congiura contro se stesso, per aver il pretesto di mettere a morte molte persone. Ma in realtà non vi fu alcun'altra ribellione se non quella di Alessandro, che successivamente si tolse la vita assieme ai suoi, e quella della sorella Lucilla; Commodo ebbe dagli adulatori anche l'appellativo di Britannico, dopo che i Britanni avevano persino voluto eleggere, ribellandosi a lui, un altro imperatore. Ebbe anche il titolo di Ercole romano, per aver ucciso delle fiere nell'anfiteatro a Lanuvio; aveva infatti anche quest'abitudine, di uccidere belve in patria. Ebbe inoltre la stravaganza di volere che la città di Roma fosse chiamata «Colonia Commodiana»; questa idea pazza si dice gli sia spuntata tra una carezza e l'altra di Marcia. Volle anche guidare le quadrighe nel Circo. Si presentava in pubblico indossando la tunica dalmatica, e dava, così vestito, il segnale di lasciar uscire le quadrighe. Quando annunciò al senato la sua intenzione di rendere Roma «Commodiana», questo non solo l'accolse favorevolmente per farsi beffe di lui, s'intende, ma addirittura assunse esso stesso l'appellativo di «Commodiano», conferendo a Commodo quello di Ercole e dio.

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Finse di voler intraprendere anche un viaggio in Africa, per spillare i soldi per il viaggio, e ottenutili, li spese invece in banchetti e a giocare a dadi. Uccise il prefetto del pretorio Motileno, avvelenandolo con dei fichi. Ebbe delle statue in veste di Ercole, e come a un dio gli furono offerti sacrifici. Aveva inoltre progettato di uccidere molte persone. Ma il suo piano fu svelato da un fanciullo, che gettò giù dalla sua camera da letto una tavoletta sulla quale stavano scritti i nomi delle vittime destinate. Praticò i culti misterici di Iside, radendosi il capo e portando con sé l'immagine di Anubi. Nella sua smania di crudeltà obbligava i devoti di Bellona a tagliarsi veramente un braccio. I sacerdoti di Iside, poi, li costringeva a battersi a sangue il petto con le pigne. Quando portava l'immagine di Anubi, colpiva violentemente con il volto della statua la testa dei sacerdoti di Iside. Con la clava invece colpiva, vestito da donna e coperto di una pelle leonina, non solo i leoni, ma anche molte persone. Prendeva individui zoppi, o che non erano in grado di camminare, camuffandoli da giganti, e ricoprendoli dalle ginocchia in giù di coperte e drappi per farli assomigliare a dei draghi, per poi ucciderli a colpi di freccia. Contaminò con un omicidio vero il culto di Mitra, nel quale di solito ci si limita a descrivere o simulare qualche scena che incuta timore.

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Fin da fanciullo fu goloso e impudico. Nella sua giovinezza ebbe a disonorare ogni genere di uomini che avevano a che fare con lui, e fu da essi a sua volta disonorato. Quanti lo deridevano, li dava in pasto alle belve. In quei momenti ordinò di gettare alle fiere anche uno che aveva letto il libro di Tranquillo contenente la vita di Caligola, solo perché il proprio giorno di nascita coincideva con quello di Caligola. Se uno diceva di essere disposto a morire per lui, lo faceva gettar giù da una rupe, nonostante le sue disperate proteste. Anche negli scherzi era esiziale. Per esempio, a qualcuno cui aveva notato dei capelli bianchi in mezzo a quelli neri, che davano quasi l'impressione di piccoli vermi, poneva sulla testa uno storno, così che questo credesse di dare la caccia a dei vermi, facendogli in tal modo venire delle piaghe sul capo per via delle beccate. Fece squarciare a mezzo la pancia a un grassone, perché ne uscissero fuori in un momento tutte le budella. Chiamava «monopodi» e «loschi» coloro ai quali aveva cavato un occhio o spezzato un piede. Inoltre mise a morte qua e là molte altre persone, quali perché si erano presentate a lui vestite alla maniera dei barbari, e quali per il loro abbigliamento troppo vistoso da persone nobili. Aveva tra i suoi oggetti di piacere degli uomini chiamati col nome delle pudende di entrambi i sessi, ai quali profondeva i suoi baci con particolare trasporto. Teneva anche con sé un uomo dal pene prominente oltre misure animalesche, cui aveva dato il nome di Onos, e che gli era quanto mai caro. Infatti lo arricchì e lo prepose al sacerdozio di Ercole Rustico.

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Si dice che spesso mischiasse a cibi pregiatissimi dello sterco umano, e che non avesse ritegno neppure ad assaggiarli, pensando con ciò di farsi beffe degli altri. Si fece servire su di un vassoio d'argento due gobbi contorti dopo averli fatti cospargere di senape, dopo di che seduta stante li promosse a qualche carica e li colmò di ricchezze. Gettò in una piscina il suo prefetto del pretorio Giuliano con la toga addosso, alla presenza dei suoi subalterni. E gli ordinò anche di danzare nudo davanti alle sue concubine, suonando il cembalo e con la faccia imbrattata da vari tipi di legumi cotti. Dato il suo modo di vivere continuamente immerso in voluttuose mollezze, era raro che invitasse a pranzo. Si lavava sette o otto volte al giorno, pranzando nei bagni stessi. Accedeva ai templi degli dèi contaminato da stupri e assassinii. Si divertiva a scimmiottare anche i medici, cavando sangue alle persone con ferri micidiali. I suoi adulatori in suo onore cambiavano anche il nome ai mesi: «Commodo» invece di Agosto, «Ercole» invece di Settembre, «Invitto» invece di Ottobre, «Vittorioso» invece di Novembre, «Amazzonio» invece di Dicembre, dai suoi vari soprannomi. Quello di Amazzonio gli era stato affibbiato a motivo della sua passione per la concubina Marcia, che gli piaceva veder ritratta come un'Amazzone, per amore della quale volle egli stesso scendere nell'arena di Roma vestito in quel modo. Partecipò anche a combattimenti di gladiatori, e accettava di ricevere nomi di gladiatori con tale gioia quasi gli avessero conferito titoli trionfali. Interveniva sempre agli spettacoli, e ogni sua partecipazione voleva fosse iscritta nei registri ufficiali. Si dice che abbia preso parte a settecentotrentacinque combattimenti. Ricevette l'appellativo di Cesare il 12 del mese di ottobre, chiamato poi da lui «Ercole», sotto il consolato di Pudente e Pollione. Il 15 dello stesso mese, sotto il consolato di Massimo e Orfito, ebbe il titolo di Germanico.

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Fu ammesso quale sacerdote a far parte di tutti i collegi religiosi il 20 di gennaio, sotto il consolato di Pisone e Giuliano (= 175 d.C.). Partì alla volta della Germania il 19 maggio. Nel medesimo anno assunse la toga virile. Fu proclamato imperatore insieme col padre il 27 novembre, sotto il secondo consolato di Pollione e Apro. Celebrò il trionfo il dicembre dello stesso anno. Partì nuovamente il 3 agosto sotto il consolato di Orfito e Rufo (= 178 d.C.). Il 22 ottobre dell'anno del secondo consolato di Presente, fu ufficialmente affidato alla protezione perpetua dell'esercito e del senato nel palazzo Palatino, diventato poi Commodiano. Faceva già progetti per un terzo viaggio, ma ne fu trattenuto dal senato e dal popolo. I voti solenni per la sua salute furono celebrati il 5 aprile, sotto il secondo consolato di Fusciano (= 188 d.C.). Nel frattempo riferiscono che combatté trecentosessantacinque volte durante il regno di suo padre, e successivamente allo stesso modo ottenne tante vittorie gladiatorie sia sconfiggendo sia uccidendo i reziari, da arrivare a toccare le mille. Uccise di sua mano molte migliaia di fiere di diverse razze tra cui abbatté anche degli elefanti. E queste imprese le compiva spesso davanti agli occhi del popolo romano.

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Ma se in questo campo fu davvero valente, per il resto era debole e malaticcio, anche per via di un'ernia inguinale sviluppata al punto che la gente poteva riconoscerne il gonfiore attraverso le vesti di seta. A tale proposito furono scritti molti versi, che Mario Massimo si vanta di riportare anche nella sua opera. Tale era la forza di cui disponeva quando doveva abbattere le bestie feroci, che trafiggeva un elefante con una picca, e una volta trapassò con un'asta il corno di una gazzella; era poi in grado di uccidere molte migliaia di grosse fiere con un sol colpo ciascuna. Era così spudorato che assai spesso, mentre sedeva al circo o a teatro, beveva in pubblico vestito da donna. Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all'azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un'unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne.

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A causa di questa sua trascuratezza, poiché coloro che gestivano allora l'amministrazione dello Stato rubavano persino sui rifornimenti annonari, ebbe anche a scoppiare a Roma una grave carestia, benché non ci fosse deficienza di prodotti. In seguito questi individui che facevano razzia di ogni cosa Commodo li mise a morte e ne fece proscrivere i beni. Ma egli a sua volta, volendo far apparire che era tornata un'età dell'oro chiamata «Commodiana», impose un abbassamento dei prezzi, con cui finì per rendere più grave la carestia. Sotto di lui molti poterono ottenere a prezzo la condanna altrui e la propria salvezza. Vendeva anche la commutazione delle pene, la concessione della sepoltura, l'alleggerimento dei supplizi, e accettava di mettere a morte gli uni per gli altri. Vendeva anche le province e le amministrazioni, e il ricavato andava parte a quelli che avevano combinato la vendita, parte allo stesso Commodo. Vendette a molti anche la messa a morte dei loro nemici. Sotto di lui i liberti misero in vendita persino gli esiti dei processi. Non sopportò a lungo i prefetti Paterno e Perenne, e del resto anche di quelli che aveva creato lui stesso, nessuno riusciva a concludere un triennio, in quanto la maggior parte di essi li uccise di veleno o di spada. Con la stessa facilità mutava anche i prefetti dell'urbe.

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Uccideva senza scrupolo i suoi inservienti, anche se era stato sempre loro succube. Uno di loro, Ecletto, vedendo che egli con tanta facilità metteva a morte i suoi cortigiani, lo prevenne e prese parte alla congiura che ordì la sua uccisione. Quando era ad assistere a spettacoli gladiatori, a un certo punto prendeva lui stesso le armi, coprendosi le spalle nude con un drappo di porpora. Aveva inoltre l'abitudine di far registrare negli Atti dell'Urbe tutti i suoi atti di turpitudine, di dissolutezza, di crudeltà, e le sue imprese di gladiatore e ruffiano, come risulta dagli scritti di Mario Massimo. Chiamò Commodiano anche il popolo romano, in presenza del quale aveva sostenuto innumerevoli combattimenti gladiatori. Una volta che il popolo, durante una delle sue frequenti esibizioni, gli aveva tributato consensi degni di un dio, credendosi beffeggiato, aveva dato ordine ai marinai addetti alle vele di fare nell'anfiteatro una strage fra il popolo romano. Aveva comandato di incendiare la città, come se fosse stata una colonia di sua proprietà; ciò che sarebbe avvenuto, se il prefetto del pretorio Leto non lo avesse dissuaso. Tra gli altri appellativi trionfali ricevette anche per seicentoventi volte quello di «Capo degli Inseguitori».

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Nel corso del suo impero si verificarono in forme pubbliche o ristretti alla conoscenza di privati cittadini questi prodigi : apparve una stella cometa. Apparvero nel foro orme di divinità rivolte verso l'uscita. E prima che scoppiasse la guerra dei disertori il cielo parve incendiarsi. Nel circo, il primo di gennaio, si alzò d'improvviso una tenebrosa caligine. E prima dell'alba erano comparsi anche uccelli incendiari e di cattivo augurio. Egli stesso si trasferì dal Palazzo nella villa Vettiliana sul Celio, dicendo che lì non riusciva a dor mire. Il tempio di Giano bifronte si aprì da solo, e la statua di marmo di Anubi fu vista muoversi. La statua di bronzo di Ercole nel portico di Minucio per vari giorni stillò sudore. Inoltre sopra la sua stanza da letto, tanto a Roma che a Lanuvio, fu osservato un gufo. Egli stesso si era attirato a sua volta un presagio non indifferente: messa infatti la mano nella ferita di un gladiatore ucciso, se l'era pulita nei capelli; inoltre, contro la consuetudine, diede ordine che gli spettatori si recassero ad assistere ai giochi gladiatori non in toga, ma col mantello, come era d'uso nei funerali, ed egli stesso vi presiedeva vestito di scuro. Il suo elmo rotolò via per due volte attraverso la porta Libitina (= sacra alla dea dei funerali). Elargì al popolo un donativo di settecentoventicinque denari a persona. In tutte le altre occasioni si mostrò invece quanto mai avaro, poiché le spese per la sua vita dissipata assottigliavano l'erario. Aggiunse a quelli già esistenti molti giochi nel circo per proprio capriccio più che per spirito religioso, e allo scopo di procurare lauti guadagni ai capi delle fazioni in gara.

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Sotto la spinta di questo stato di cose - sebbene troppo tardi - il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi.

Era fisicamente ben proporzionato, ma con il volto ebete tipico degli avvinazzati; il suo parlare era grossolano; i capelli sempre lisciati e lumeggiati di polvere d'oro; per timore del barbiere regolava capelli e barba bruciandoseli. Il senato e il popolo chiesero che il suo cadavere fosse trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere, ma poi per ordine di Pertinace fu invece sepolto nella tomba di Adriano. Delle sue opere pubbliche, ad eccezione delle terme che Cleandro aveva costruito in suo nome, non ne resta alcuna. Ma il senato ebbe a far cancellare il suo nome che egli aveva fatto incidere su opere non sue. Non portò neppure a compimento le opere iniziate dal padre. Istituì una flotta africana che provvedesse ai rifornimenti nel caso che i vettovagliamenti provenienti da Alessandria fossero venuti a mancare. Giunse al ridicolo di chiamare Cartagine «Alessandria Commodiana Togata», dopo aver dato anche alla flotta d'Africa il nome di Commodiana Erculea. Aggiunse al Colosso alcuni ornamenti, che in seguito furono tutti quanti tolti. Tolse ad esempio il capo del Colosso, che raffigurava Nerone, e vi pose sopra una sua testa, facendo poi incidere alla base un'iscrizione secondo il suo solito stile, dove non mancavano i titoli quale gladiatore ed effeminato. Nonostante tutto, un individuo di questo genere fu divinizzato da un imperatore pur serio e uomo degno del suo nome quale Severo, per odio a quanto sembra nei confronti del senato; questi gli decretò anche un flamine, quello «Erculaneo Commodiano», che egli stesso si era scelto quand'era ancor vivo. Lasciò tre sorelle. Severo dispose la celebrazione del suo natalizio.

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Le acclamazioni del senato dopo la morte di Commodo furono di tenore assai aspro. Perché fosse possibile avere un'idea di quale fu il giudizio del senato nei confronti di Commodo, ho qui inserito le acclamazioni stesse, ricavandole da Mario Massimo, nonché il succo del decreto senatorio: «Al nemico della patria siano tolti gli onori, al parricida siano tolti gli onori, il parricida sia trascinato via. Il nemico della patria, il parricida, il gladiatore sia fatto a pezzi nello spogliatoio. Nemico degli dèi, carnefice del senato, nemico degli dèi, assassino del senato: nemico degli dèi, nemico del senato. Il gladiatore allo spogliatoio. Colui che ha ucciso il senato, sia gettato nello spogliatoio: colui che ha ucciso il senato sia trascinato con l'uncino: colui che ha ucciso degli innocenti, sia trascinato con l'uncino: nemico e parricida, sì, sì! Colui che non ha risparmiato neppure i parenti di sangue, sia trascinato con l'uncino. Colui che fu sul punto di ucciderti (= rivolto a Elvio Pertinace), sia trascinato con l'uncino. Hai temuto con noi, sei stato in pericolo con noi. Perché possiamo essere salvi, Giove Ottimo Massimo, salvaci Pertinace. Viva la fedeltà dei pretoriani! Viva le coorti pretorie! Viva gli eserciti romani! Viva la rettitudine del senato! Il parricida sia trascinato. Ti preghiamo, Augusto, il parricida sia trascinato. Questo chiediamo, il parricida sia trascinato. Esaudiscici, Cesare: i delatori in pasto ai leoni! Esaudiscici, Cesare: Sperato in pasto ai leoni! Viva la vittoria del popolo romano! Viva la fedeltà dei soldati! Viva la fedeltà dei pretoriani! Viva le coorti pretorie! Dovunque statue del nemico pubblico, dovunque statue del parricida, dovunque statue del gladiatore! Le statue del gladiatore e del parricida vengano abbattute. L'uccisore dei suoi concittadini sia trascinato, l'assassino dei suoi concittadini sia trascinato. Le statue del gladiatore siano abbattute. Salvo te, siamo salvi e sicuri noi pure, sì, sì, ora sì, ora in modo degno, ora sì, ora da uomini liberi! Ora siamo tranquilli: ai delatori il terrore! Affinché noi siamo tranquilli, terrore per i delatori! Affinché siamo salvi, via i delatori dal senato, il bastone per i delatori! Salvo te, i delatori in pasto ai leoni! Con te imperatore, il bastone per i delatori!

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Del gladiatore parricida sia cancellato il ricordo, del gladiatore parricida siano abbattute le statue. Del sozzo gladiatore sia cancellato il ricordo. Il gladiatore allo spogliatoio! Esaudiscici, Cesare: il carnefice sia trascinato con l'uncino. Il Carnefice del senato sia trascinato con l'uncino secondo l'uso dei padri. Più crudele di Domiziano, più turpe di Nerone. Così ha agito, così venga trattato. La memoria degli innocenti sia onorata. Restituisci gli onori agli innocenti, te ne preghiamo. Il cadavere del parricida sia trascinato con l'uncino, il cadavere del gladiatore sia trascinato con l'uncino, il cadavere del gladiatore sia gettato nello spogliatoio. Interrogaci, interrogaci, tutti proponiamo che sia trascinato con l'uncino. Colui che ha ucciso tutti, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha ucciso gente di ogni età, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha ucciso senza distinzione di sesso, sia trascinato con l'uncino. Colui che non ha risparmiato neppure il suo sangue, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha spogliato i templi, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha annullato i testamenti, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha spogliato i vivi, sia trascinato con l'uncino. Siamo stati schiavi dei suoi schiavi. Colui che si è fatto pagare per concedere la vita, sia trascinato con l'uncino. Colui che si è fatto pagare per concedere la vita e non ha mantenuto la parola, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha venduto il senato, sia trascinato con l'uncino. Colui che ha sottratto ai figli l'eredità, sia trascinato con l'uncino. Via dal senato le spie! Via dal senato i delatori! Via dal senato i corruttori di schiavi! Anche tu hai avuto paura assieme a noi, sai tutto, conosci i buoni e i malvagi. Tu sai tutto, rimedia tu a tutto; noi abbiamo temuto per te. Felici noi, ora che ti abbiamo visto sul trono! Esponi, esponi i capi d'accusa contro il parricida, interroga ad uno ad uno. Chiediamo la tua presenza. Gli innocenti sono rimasti insepolti: il cadavere del parricida sia trascinato con l'uncino. Il parricida ha disseppellito i morti: il cadavere del parricida sia trascinato».

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Ma per ordine di Pertinace Livio Larense, procuratore del patrimonio, affidò il cadavere di Commodo al console designato Fabio Chilone, ed esso fu seppellito durante la notte. Si levarono proteste da parte del senato: «Chi ha dato l'ordine di seppellirlo? Il parricida sepolto venga dissotterrato e trascinato!». Cingio Severo disse: «È stato indebitamente seppellito. Come lo dico io quale pontefice, così lo dice tutto il collegio dei pontefici. E poiché ho già esaminato le note liete, passerò ora alle misure da prendere: io giudico che tutto ciò, che colui che non è vissuto che per la rovina dei cittadini e la propria degradazione costrinse a decretare in suo onore, debba essere fatto sparire. Le statue, che sono dappertutto, devono essere abbattute, e il suo nome deve essere cancellato da tutti gli edifici pubblici e privati, e i mesi debbono essere chiamati coi nomi con cui erano chiamati allorché primamente quella calamità piombò sullo Stato».



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