Cicerone
Pro Ligario
1) Il mio parente Quinto Tuberone ti ha presentato un atto d’accusa strano, C. Cesare, e (mai) sentito prima di questo giorno, che (cioè) Quinto Ligario è stato in Africa e Caio Pansa, uomo di acuta intelligenza, confidando forse in quell’amicizia che ha con te, ha osato ammetterlo. Perciò non so dove rivolgermi. Infatti, dal momento che tu non lo sapevi, nè avevi potuto apprenderlo da un’altra parte, ero venuto pronto ad approfittare della tua ignoranza per la salvezza di un infelice. Ma poiché dallo zelo di un avversario è stato portato alla luce ciò che era nascosto, bisogna riconoscerlo, come credo, tanto più che il mio amico Pansa ha fatto sì che la cosa non fosse più impregiudicata e, messa da parte (ogni) contestazione, tutta la mia orazione deve rivolgersi alla tua misericordia, dalla quale moltissimi (cittadini) sono stati salvati, avendo ottenuto da te non l’assoluzione da una colpa, ma il perdono di un errore. Hai dunque, o Tuberone, ciò che un accusatore deve desiderare di più, un reo confesso, ma che tuttavia (solo) questo confessa, di essere stato in quel partito in cui (hai militato) tu, in cui (ha militato) tuo padre, uomo degno di ogni lode. Pertanto è necessario che confessiate il vostro reato prima di rimproverare qualche colpa di Ligario. Quinto Ligario infatti, partì come legato per l’Africa insieme a Caio Considio, mentre non vi era alcun sospetto di guerra, e in questo ufficio si rese così bene accetto sia ai cittadini (romani) sia ai provinciali, che Considio, andandosene dalla provincia, non avrebbe potuto far cosa gradita a (quegli) uomini se avesse messo a capo della provincia qualcun altro. E così Ligario, poiché, pur rifiutando a lungo, a nulla era riuscito, accettò la provincia pur contro voglia; ma fu a capo di essa durante la pace in modo tale che la sua onestà e la sua lealtà furono graditissime sia ai cittadini (romani) sia ai provinciali. All’improvviso scoppiò la guerra (civile) che coloro che si trovavano in Africa seppero che si combatteva, prima di sapere che si stava preparando. Udito ciò, alcuni per insensata passione politica, altri per una cieca paura, cercavano un capo, prima di tutto per la (propria) salvezza, poi anche per il proprio partito, ma ecco che Ligario, con l’animo rivolto alla patria, desideroso di tornare dai suoi, non si lasciò coinvolgere in alcuna faccenda. Frattanto giunse ad Utica Publio Attio Varo che come propretore aveva (già) governato l’Africa. Subito ci si precipitò da lui. Ed egli afferrò il potere con ambizione non da poco, se poteva essere un potere (legittimo) quello che veniva conferito ad un privato cittadino per acclamazione di una folla ignorante, senza alcuna pubblica deliberazione. E così Ligario, che desiderava evitare ogni incarico di tal genere, ebbe un po’ di pace con l’arrivo di Varo. 2) Fin qui, C. Cesare, Ligario è privo di ogni colpa. Partì da casa non per (andare a combattere) qualche guerra, ma quando non vi era neppure il minimo sospetto di una guerra (lett.: neppure al minimo sospetto di guerra); partito in tempo di pace come legato, in una provincia molto pacifica si comportò in modo tale che gli conveniva che ci fosse la pace. La (sua) partenza certo non deve offendere il tuo animo, (dovrebbe) forse (offenderlo), a questo punto, la (sua) permanenza? Molto meno. La partenza infatti non ebbe uno scopo disonesto, la permanenza (ebbe) una necessità che gli fa anche onore. Dunque questi due periodi sono esenti da una (possibile) incriminazione; il primo quando partì come legato, il secondo, quando richiesto insistentemente dai provinciali, fu posto a capo dell’Africa. Il terzo periodo è quello in cui rimase in Africa dopo l’arrivo di Varo; e se ciò è incriminabile, è una colpa dovuta a necessità, non a volontà. O forse egli, se avesse potuto andarsene in qualche modo da lì, avrebbe preferito stare a Utica piuttosto che a Roma, con Publio Attio piuttosto che con i fratelli in perfetto accordo (con lui), con degli estranei piuttosto che con i suoi familiari? Ma se persino il periodo in cui ebbe il compito di legato era stato pieno di nostalgia e di preoccupazione per il suo davvero incredibile amore per i fratelli, avrebbe potuto costui starsene con animo sereno, separato dai fratelli dalla discordia causata dalla guerra civile? Dunque, Cesare, non hai ancora in Ligario alcun segno di una disposizione d’animo ostile a te; e cerca di capire con quale lealtà io difenda la sua causa: tradisco la mia! O clemenza ammirevole e che dovrebbe essere onorata dalla lode di tutti celebrata dalle parole di tutti (lett.: dalla celebrazione a parole), da scritti e da monumenti! Quando Marco Cicerone afferma davanti a te che un altro non si è trovato in quella stessa disposizione d’animo in cui egli stesso confessa di essersi trovato, non ha paura dei tuoi segreti pensieri, non teme che cosa ti possa venire in mente di lui mentre lo ascolti (parlare) di un altro. 3) Vedi come io non abbia paura, vedi quanta luce della tua generosità e della tua saggezza risplenda ai miei occhi quando parlo davanti a te! Proclamerò quanto potrò con la (mia) voce affinchè il popolo romano senta bene: “Allorchè fu intrapresa la guerra, Cesare, anzi fu combattuta anche in gran parte, non costretto da alcuna forza, per mio deliberato proposito, partii per impugnare quelle armi che erano state prese contro di te. Davanti a chi dunque (io) dico ciò? Proprio davanti a colui che, pur essendo a conoscenza di ciò, tuttavia mi restituì alla repubblica prima di vedermi; che mi mandò una lettera dall’Egitto perché continuassi ad essere la stessa persona che ero stato; che, sebbene egli fosse l’unico imperator in tutto l’impero romano, permise che io fossi il secondo; dal quale – e mi portò la notizia lo stesso Pansa qui presente – mi fu concesso di conservare i fasci laureati, finchè ritenessi opportuno di doverli tenere; che, infine, ritenne di concedermi la salvezza solo a patto di concedermela con tutti gli onori (lett.: se me l’avesse data non spogliata di nessun onore). Osserva, ti prego, Tuberone, come io che (pure) non esito a parlare della mia vicenda, avrei (bene) il coraggio di parlare di quella di Ligario. E ho detto queste cose su di me, proprio perché Tuberone mi perdoni quando dirò le stesse cose di lui; ed io approvo la sua lodevole attività sia per la stretta parentela sia perché mi compiaccio della sua indole e dei suoi studi sia perché il merito del mio giovane parente torni anche un poco ad onor mio. Ma io chiedo questo: chi ritiene che l’essere stato in Africa costituisca un capo d’accusa? Per l’appunto colui che avrebbe voluto lui pure stare nella stessa provincia e che si lamenta di esserne stato impedito da Ligario e che sicuramente ha combattuto armato contro lo stesso Cesare. Che cosa faceva infatti quella tua spada sguainata nella battaglia di Farsalo? Al fianco di chi mirava quella punta? Qual era l’intenzione delle tue armi? A che miravano la tua mente, i tuoi occhi, le tue mani, il furore del tuo animo? Che cosa bramavi, che cosa desideravi? Incalzo troppo; il giovanotto sembra smarrito. Ritornerò a me. Ho militato nello stesso partito. 4) Che altro poi cercammo (noi Pompeiani), Tuberone, se non di avere il potere che detiene Cesare qui presente? Orbene ti aizzeranno alla crudeltà le parole di quegli stessi la cui impunità, Cesare, è merito della tua clemenza? E in questo processo, Tuberone, sento un po’ la mancanza anche della tua saggezza, ma molto di più di quella di tuo padre, poiché quell’uomo ragguardevole non solo per l’intelligenza ma anche per la dottrina, non comprese quale fosse la natura di questa causa. Infatti, se l’avesse capita, avrebbe preferito che la causa fosse da te impostata certamente in qualunque altro modo piuttosto che in questo. Accusi un reo confesso. Non è abbastanza: accusi lui che ha una posizione giuridica o, come dico io, migliore della tua, o, come vuoi tu, pari. Queste cose sono (già) strane, ma quello che dirò è quasi una mostruosità. Codesta (tua) accusa non ha lo scopo di far condannare Quinto Ligario, ma di farlo uccidere. Questo non l’ha fatto nessun cittadino romano prima di te: codesti sono costumi stranieri [lasciarsi spingere dall’odio fino al sangue] tipici o della leggerezza dei Greci o della crudeltà dei barbari (lett.: dei Greci leggeri o dei barbari crudeli). Infatti, che altro cerchi? Che non viva a Roma? Che sia privo della casa? Che non viva (più) con gli ottimi fratelli, con suo zio Tito Brocco, con il figlio di lui, suo cugino, con noi? Che non viva (più) nella (sua) patria? Forse che egli è (in patria)? Potrebbe forse essere privato di tutti questi beni più di quanto lo sia? Gli è proibita l’Italia, è esule. Tu dunque non vuoi privare costui della patria, di cui è (già) privo, ma della vita. Ma nessuno si comportò in codesta maniera (lett.: codesta cosa non fece nessuno in codesto modo) neppure al tempo di quel dittatore (= Silla) che condannava a morte tutti quelli che odiava. Egli in persona ordinava di uccidere senza che nessun (accusatore glielo) chiedesse, anzi, allettava (i suoi sicari) anche con premi; e tuttavia questa crudeltà è stata punita alcuni anni dopo da questo stesso (Cesare) che tu vuoi che adesso sia crudele. 5) “Ma io non chiedo questo!” dirai. Io credo di sì, per Ercole, Tuberone. Infatti conosco te, conosco tuo padre, conosco la tua famiglia e il tuo casato; mi è noto il culto della vostra stirpe e della vostra famiglia per la virtù, per la bontà, per il sapere e per le più svariate e nobile discipline. Pertanto so per certo che voi non chiedete sangue, ma riflettete poco. La situazione porta alla conclusione che voi non sembrate essere soddisfatti della pena che Ligario sta ancora pagando (lett.: in cui ancora si trova). Quale altra pena esiste eccetto la morte? Se infatti è in esilio, come in effetti è, che cosa chiedete di più? Forse che non venga perdonato? Ma questa è cosa molto più crudele e dolorosa. Ti batterai perché non otteniamo ciò che chiediamo con preghiere e lacrime, gettati ai (suoi) piedi, fiduciosi non tanto nella nostra buona causa quanto nella sua bontà, ti slancerai contro il nostro pianto e ci impedirai di supplicarlo mentre siamo prostrati ai suoi piedi? Se, mentre noi facevamo ciò a casa sua – cosa che facemmo e, come spero, non facemmo invano – ti fossi precipitato dentro all’improvviso e avessi incominciato a gridare: “C. Cesare, guardati dal perdonare, guardati dall’aver pietà di fratelli che ti supplicano per la salvezza di un fratello!” non ti saresti forse spogliato di ogni senso di umanità? Quanto (è) più crudele di ciò, che da parte tua si contrasti nel foro quello che noi chiediamo in casa e che si tolga in una simile sventura di molti l’asilo della magnanimità! Dirò liberamente, Cesare, ciò che penso. Se nella tua così grande fortuna non ci fosse una così grande mitezza, che tu conservi per merito tuo, solo per merito tuo, - so bene che cosa sto dicendo – codesta tua vittoria sarebbe piena di amarissimo pianto. Quanti vi sarebbero infatti tra i vincitori che vorrebbero che tu fossi crudele, visto che ve ne sono anche tra i vinti! Quanti che, volendo che vorrebbero che a nessuno fosse da te perdonato, ostacolerebbero la tua clemenza, visto che proprio costoro a cui hai perdonato, non vogliono che tu sia clemente verso gli altri! E se potessimo far credere a Cesare che Ligario non è affatto stato in Africa, se volessimo con una nobile e pietosa bugia essere di salvezza per un cittadino sventurato, tuttavia non sarebbe degno di un essere umano confutare e smentire la nostra menzogna in un così grave rischio e pericolo di un cittadino, e, se proprio spettasse a qualcuno (lett.: fosse proprio di qualcuno), non spetterebbe certo a chi si è trovato nello stesso partito e nella stessa sorte. Ma tuttavia una cosa è non volere che Cesare sia in errore, altra cosa è non volere che abbia misericordia. Nel primo caso diresti: “Cesare, non credere: è stato in Africa, ha impugnato le armi contro di te”. Adesso invece, che cosa dici? “Non perdonare”. Queste non sono parole degne di un essere umano, né (degne di essere rivolte) ad un essere umano. E chi userà queste parole davanti a te, Cesare, getterà via la sua umanità prima di riuscire a strapparti la tua. 6) E il primo passo e cioè l’istanza di Tuberone fu questa, come penso, di voler fare dichiarazioni sul reato (di tradimento) di Ligario. Non dubito che tu ti sia meravigliato sia del fatto che non (lo facesse) di nessun altro, sia del fatto che (lo facesse proprio) lui, che aveva militato nel medesimo partito, sia (domandandoti) che cosa mai di nuovo adducesse (contro di lui). Tu lo chiami “delitto”, Tuberone? Perché? (L’aver abbracciato) quella causa (= l’aver difeso Pompeo) infatti è stata finora immune da codesta definizione. Alcuni lo chiamano sbaglio, altri paura; chi (si esprime) in modo più duro (lo chiama) speranza, cupidigia, odio, ostinazione; chi (si esprime) nel modo più severo (lo definisce) avventatezza: ma finora, delitto, prima di te nessuno (lo ha mai definito). E in verità se mi si chiede il nome vero e proprio della nostra sventura, mi sembra che una calamità davvero fatale ci sia caduta addosso e che abbia invaso la mente sprovveduta degli uomini tanto che nessuno dovrebbe meravigliarsi se l’umano intelletto è stato superato dalla ineluttabile disposizione divina. Sia pur consentito che noi siamo infelici – sebbene con costui come vincitore non possiamo esserlo; ma non parlo di noi, parlo di quelli che morirono – siano pur stati avidi, pieni di collera, ostinati: ma si conceda a Cneo Pompeo ormai morto, si conceda a molti altri di essere esenti dall’accusa di delitto, di faziosità, di parricidio. Quando mai, Cesare, qualcuno ha sentito questo da te o che altro scopo ebbero le tue armi se non di respingere da te un oltraggio? Che altro cercò di fare il tuo invitto esercito se non di tutelare il suo diritto e il tuo onore? E che? Tu quando desideravi che ci fosse la pace, miravi forse ad accordarti con dei traditori o con dei buoni cittadini? Poi, Cesare, i tuoi grandissimi benefici verso di me non mi sembrerebbero davvero tanto grandi se io ritenessi di essere stato da te risparmiato come un traditore. D’altra parte come avresti potuto renderti benemerito dello Stato, se avessi voluto che tanti scellerati mantenessero intatto il loro prestigio (lett.: fossero di intatto prestigio)? Fin dall’inizio, Cesare, tu la considerasti una spaccatura politica, non una guerra né un odio di nemici, ma un dissidio tra cittadini, dal momento che entrambi (i partiti) desideravano che lo Stato fosse salvo, ma perdevano di vista la comune utilità, in parte per i loro piani, in parte per faziosità. Il prestigio dei capi era quasi uguale, forse non era uguale (quello) di coloro che li seguivano; la (bontà della) causa era incerta perché in entrambe le parti c’era qualcosa che si poteva approvare; ora deve essere giudicata migliore quella che anche gli dei hanno aiutato. Ora poi, conosciuta la tua clemenza, chi non approverebbe quella vittoria nella quale non è morto nessuno se non con le armi in pugno? 7) Ma per non parlare della causa comune, veniamo alla nostra. Insomma, Tuberone, pensi che sarebbe stato più facile a Ligario andarsene dall’Africa o a voi non venire in Africa? “Avremmo forse potuto (non andarci) - dirai - visto che il senato (lo) aveva stabilito?” Se lo chiedi a me, in nessun modo (avreste potuto); ma tuttavia lo stesso senato aveva inviato Ligario come legato. E per di più egli obbedì in un momento in cui era necessario obbedire al senato; voi invece obbediste allora quando non obbediva nessuno che non volesse. Muovo dunque un rimprovero? Niente affatto. E infatti non sarebbe stato possibile (agire) diversamente alla vostra stirpe, al vostro casato, alla vostra famiglia, alla vostra educazione. Ma questo non ammetto, che rimproveriate agli altri quegli stessi comportamenti di cui voi menate vanto. Il nome di Tuberone fu posto nell’urna (= per il sorteggio delle province) per deliberazione del senato, sebbene egli fosse assente ed impedito per di più da una malattia: aveva deciso di addurla come giustificazione per sottrarsi (all’incarico). So queste cose per tutti i legami che ho con Tuberone: in pace siamo stati istruiti insieme, in guerra(siamo stati) compagni d’arme, poi parenti, amici intimi per tutta la vita; (costituì) anche un grande vincolo il fatto che abbiamo sempre avuto le stesse aspirazioni. So che Tuberone avrebbe voluto starsene a casa: ma qualcuno si adoperava a tal punto, a tal punto (gli) metteva innanzi il santissimo nome dello Stato, che, sebbene la pensasse diversamente, tuttavia non avrebbe potuto sostenere la pressione di quegli stessi discorsi. Ha ceduto o piuttosto ha obbedito all’autorevolezza di un uomo importantissimo e così partì per l’Africa insieme a coloro di cui condivideva la causa. Fece il viaggio troppo lentamente e così giunse in Africa quando era già stata occupata. Da qui nasce l’imputazione o meglio l’ira contro Ligario. Infatti se è colpa l’aver voluto tenervi lontano (dall’Africa), che voi abbiate avuto l’intenzione di occupare l’Africa, la roccaforte di tutte le province, nata per portare guerra a questa città, non è meno grave del fatto che qualcun altro abbia preferito tenersela lui; e tuttavia quel qualcuno non fu Ligario. Varo diceva di avere il comando; certamente aveva le insegne del comando. Ma, in qualunque modo stia la cosa, che valore ha questa vostra lagnanza, Tuberone, “Non siamo stati accolti nella (nostra) provincia”? Che cosa (avreste fatto) se foste stati accolti? L’avreste consegnata a Cesare o l’avreste tenuta contro Cesare? 8) Vedi, Cesare, che franchezza o piuttosto che ardimento ci dia la tua magnanimità. Se Tuberone risponderà che suo padre ti avrebbe consegnato l’Africa, dove il senato e il sorteggio l’avevano mandato, non esiterò con parole molto severe a criticare il suo progetto proprio davanti a te cui pure sarebbe interessato che egli facesse ciò. Se infatti quel gesto ti fosse stato gradito, non sarebbe stato da te anche approvato. Ma ormai metto da parte tutta questa faccenda non tanto per non importunare le tue orecchie molto pazienti, quanto perché non sembri che Tuberone avrebbe fatto ciò che mai gli passò per la mente. Vi recavate dunque in Africa, la sola provincia, tra tutte, quanto mai ostile a questa vittoria, in cui era re un potentissimo avversario di questa causa (= la causa di Cesare), dove (era) ostile la disposizione d’animo di una comunità (romana) forte e grande. Domando: “Che cosa avreste fatto?” Per quanto, che dubbi potrei avere su cosa avreste fatto, dal momento che vedo che cosa avete fatto? Vi è stato proibito di mettere piede nella vostra provincia e vi è stato proibito con sommo oltraggio. In che modo l’avete tollerato? Da chi siete andati a lamentarvi dell’offesa ricevuta? Precisamente da colui cui vi eravate associati in guerra, seguendone l’autorità. Chè, se vi recavate nella provincia per sostenere la causa di Cesare, sareste certo andati da lui, una volta respinti dalla provincia. E invece andaste da Pompeo. Che lagnanza è dunque (la vostra) davanti a Cesare dal momento che accusate proprio colui dal quale vi lamentate di essere stati impediti di fare la guerra contro Cesare? E a questo proposito, per parte mia, anche mentendo, se volete, potete pur vantarvi che avreste consegnato la provincia a Cesare. Anche se vi fu impedito (di sbarcare in Africa) da Varo e da alcuni altri, io tuttavia confesserò che è colpa di Ligario che vi ha privati dell’occasione di (procurarvi) un merito così grande. 9) Ma considera, ti prego, Cesare, la fermezza di Lucio Tuberone, uomo pieno di virtù, (fermezza) che io, sebbene l’approvassi, come in effetti l’approvo, tuttavia non tirerei in ballo, se non sapessi che quella virtù suole essere da te particolarmente apprezzata. Che senso ebbe mai dunque in un uomo tanta fermezza? Fermezza, dico; non so se potrei definirla meglio, sopportazione. Quanti, infatti, avrebbero fatto questo (che hai fatto tu), cioè tornare proprio in quel partito da cui in una lotta civile erano stati respinti e respinti anche con crudeltà? Ciò è proprio di un animo grande e di un uomo tale che nessuna offesa, nessuna violenza, nessun pericolo potrebbe allontanare dalla causa abbracciata e dalla decisione prestabilita! Ammettiamo pure che Tuberone avesse avuto tutte le altre doti pari a quelle di Varo, l’onorabilità, la nobiltà, il lustro, l’intelligenza, (doti) che non furono affatto pari, questo certamente è un argomento a favore di Tuberone, cioè il fatto che era andato nella provincia con potere legale per deliberazione del senato. Respinto da qui, non si recò da Cesare per non sembrare arrabbiato, non a casa, per non sembrare infingardo, non in qualche altro paese, perché non sembrasse che condannava quella causa che aveva seguito: andò in Macedonia, nell’accampamento di Pompeo, in quello stesso partito dal quale era stato scacciato con offesa. E allora? Poiché questa cosa non aveva per nulla colpito l’animo di colui dal quale eravate andati, rimaneste nella causa con minor zelo, credo; facevate solo presenza nei presìdii, ma il vostro animo era lontano dalla causa: o forse, come accade nelle guerre civili, [a causa della cupidigia non vi era alcun amore per la pace] in voi non più che negli altri? Tutti infatti eravamo presi dal desiderio di vincere. Io sono sempre stato consigliere di pace, ma allora (era) tardi. Sarebbe stato infatti proprio di un folle, pensare alla pace mentre si vedeva l’esercito schierato a battaglia. Tutti, dico, volevamo vincere; tu certo, in particolare, che eri andato in quel luogo dove avresti dovuto morire se non avessi vinto. Per quanto, nello stato attuale delle cose, non dubito che tu anteponga questa salvezzza a quella vittoria. 10) Io non direi queste cose, Tuberone, se o voi foste pentiti della vostra ostinazione o Cesare della sua bontà. Domando ora se vogliate vendicare offese fatte a voi o allo Stato. Se (vendicate offese fatte) allo Stato, che cosa risponderete sulla vostra ostinazione in quella causa? Se (vendicate offese fatte) a voi badate di non ingannarvi pensando che Cesare si adirerà con i vostri nemici, mentre ha perdonato i suoi. E così ti sembra forse che io sia impegnato nella difesa di Ligario? Ti sembra forse che io parli della sua condotta? Qualunque cosa abbia detto, voglio che miri ad un solo scopo essenziale, a quello cioè della tua umanità, della tua clemenza, della tua misericordia. Ho trattato, certo, molte cause insieme a te, Cesare, finchè ti tennero nel foro le esigenze della tua carriera politica, ma davvero mai in questo modo: “Perdonate, giudici; ha sbagliato, ha preso una sbandata, non ha pensato (di agire male); se mai d’ora in poi..” Si suole fare una difesa così davanti ad un padre; ma davanti ai giudici: “non l’ha fatto, non ci ha pensato; i testimoni sono falsi, l’accusa inventata”. Di’, Cesare, che tu sei il giudice delle azioni di Ligario; chiedi in quale campo ha militato: io taccio, non adduco neppure quegli argomenti che forse avrebbero effetto anche davanti ad un giudice: “Partì come legato prima della guerra, fu abbandonato in pace, fu colto di sorpresa dalla guerra e in quella stessa guerra non fu accanito: ormai è completamente tuo, nella mente e nelle aspirazioni”. Davanti ad un giudice così si suole perorare una causa, ma io parlo davanti a un padre: “Ha sbagliato, ha agito avventatamente, è pentito; ricorro alla tua clemenza, chiedo perdono per la sua colpa, chiedo la sua grazia (lett.: che sia perdonato)”. Se nessuno ottenne (la grazia da te, parlo) con presunzione: se invece moltissimi (l’hanno ottenuta), tu stesso che ci hai dato la speranza, portaci soccorso. O forse Ligario non avrebbe motivo di sperare, dal momento che io ho addirittura la facoltà di intercedere davanti a te per un altro? Per quanto la speranza del successo non è riposta né in questa orazione né nelle calorose raccomandazioni di coloro che ti chiedono la grazia per Ligario, tuoi intimi amici. 11) Ho visto infatti e so che cosa tieni soprattutto d’occhio, quando molti si danno da fare per la salvezza di qualcuno: i motivi dei supplici sono per te più accetti delle persone e non badi a quanto sia tuo amico colui che ti prega, ma quanto lo sia di colui per il quale egli si adopera. Pertanto tu distribuisci ai tuoi così tanti benefici che talvolta mi sembra che coloro che godono della tua generosità, siano più fortunati di te stesso che concedi loro tanti benefici; ma vedo tuttavia che per te, come ho detto, valgono di più i motivi che le preghiere e che ti lasci commuovere soprattutto da coloro nelle cui richieste (lett.: nel cui chiedere) vedi un dolore più che giusto. Nel concedere la grazia a Q. Ligario farai certo cosa gradita a molti tuoi amici, ma, ti prego, considera ciò che sei solito (considerare). Potrei presentarti degli uomini fortissimi, dei Sabini a te carissimi e tutto il popolo sabino, fiore dell’Italia e nerbo dello Stato; conosci benissimo quegli uomini. Osserva la tristezza e il dolore di tutti costoro; di Tito Brocco qui presente, di cui so bene che cosa pensi, vedi le lacrime e l’aspetto miserando, di lui e del figlio. Che cosa dovrei dire dei fratelli? Non pensare, Cesare, che noi trattiamo della vita di uno solo: o devi far mantenere ai tre Ligarii i loro diritti di cittadini o devi bandirli tutti e tre dalla città. Qualunque esilio sarebbe per costoro preferibile alla patria, alla casa, agli dei penati, se quello solo fosse in esilio. Se agiscono spinti dall’amor fraterno, la devozione, il dolore, ti commuovano le lacrime di costoro, ti commuova la devozione, ti commuova lo spirito fraterno; valga (ancora) la tua famosa dichiarazione che ti fece vincere! Sentivamo che tu dicevi che noi (= i Pompeiani) giudicavamo nostri avversari tutti quelli che non erano con noi; mentre tu consideravi tuoi amici tutti quelli che non erano contro di te. Vedi dunque tutti questi illustri personaggi qui presenti, la famiglia dei Brocchi, L. Marcio, G. Cesezio, L. Corfidio, tutti questi cavalieri romani che sono qui in abiti da supplici (lett.: con abito mutato), uomini non solo noti a te, ma anche stimati, che furono dalla tua parte? E noi ce la prendevamo con costoro, li cercavamo, alcuni anche li minacciavano. Conserva dunque ai tuoi amici i loro cari, perché come tutte le altre cose che sono state dette da te, così questa affermazione trovi il suo più grande riscontro nella realtà dei fatti (lett.: sia trovata verissima). 12) E se tu potessi vedere a fondo la concordia dei Ligarii, giudicheresti che tutti i fratelli furono con te. O forse qualcuno potrebbe mettere in dubbio che, se Quinto Ligario fosse potuto rimanere in Italia, sarebbe stato dello stesso parere dei fratelli (lett.: in cui furono i fratelli)? Chi c’è - purchè (lett.: che) conosca l’accordo di costoro, armonico e per così dire cementato in questi fratelli quasi uguali per età - che non capisce questo, cioè che sarebbe potuta accadere qualunque cosa, prima che questi fratelli seguissero idee e sorti diverse? Con l’animo dunque furono tutti con te: dai tempi burrascosi né fu strappato uno, che se pure l’avesse fatto di proposito, sarebbe tuttavia simile a coloro che tu hai voluto che fossero salvi. Ma ammettiamo pure che sia andato in guerra, che abbia dissentito non solo da te ma anche dai fratelli: ti supplicano questi, i tuoi fautori. In verità, poiché prendevo parte a tutta la tua attività politica, ho stampato nella memoria come si sia comportato Q. Ligario, nella qualità di questore urbano, nei confronti tuoi e della tua posizione. Ma è troppo poco che ricordi ciò io: spero che anche tu, che non suoli dimenticare nulla se non le offese - poiché questo è proprio del tuo animo, della tua indole -, ricordi qualcosa a proposito di quella famosa carica questoria di costui, richiamando alla memoria anche alcuni altri questori. Dunque, T. Ligario qui presente, che allora non mirò a null’altro - e non poteva prevedere questi fatti – se non che tu lo giudicassi un uomo a te devoto e onesto, ora chiede supplice a te la salvezza del fratello. E quando tu, indottovi dal servigio resoti da costui, l’avrai data a entrambi (i fratelli) qui presenti, avrai restituito tre ottimi e integerrimi fratelli non solo a se stessi, né a tali e tanti personaggi illustri qui presenti, né a noi tuoi amici, ma anche allo Stato. Quello stesso gesto che compisti di recente in senato nei riguardi di un uomo nobilissimo e illustrissimo, fallo dunque ora nel foro nei riguardi di (questi) fratelli ottimi e molto cari a tutte questo folto uditorio. Come restituisti quello (= Marcello) al senato, così dà costui (= Ligario) al popolo i cui desideri stimasti sempre carissimi e, se quel giorno fu pieno di gloria per te, pieno di gioia per il popolo romano, non esitare, ti prego, Cesare, a procurarti il più sovente possibile una lode simile a quella gloria. Nulla è tanto caro al popolo quanto la bontà e nessuna delle tue moltissime virtù è più ammirevole né più gradita della (tua) misericordia. Gli uomini infatti si avvicinano agli dei solo dando (lett.: con nessuna cosa più che col dare) la salvezza agli (altri) uomini. La tua fortuna non possiede nulla di più grande del fatto che tu puoi salvare il maggior numero possibile di persone, né la tua natura (possiede nulla) di meglio del fatto che tu vuoi (salvarli). La causa richiederebbe forse un’orazione più lunga, la tua indole (generosa) certamente una più breve. Perciò, poiché ritengo più utile che tu stesso parli al tuo cuore (lett.: con te stesso) anziché io o qualcun (altro), metterò il punto ormai: ti ricorderò solo che, se concederai la grazia a lui (= Ligario) che non è qui, la concederai a costoro che sono qui presenti.
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